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La competizione per i diritti – Ae 95

In attesa delle Olimpiadi e della consacrazione internazionale della Cina, il punto sul delicato tema dei diritti umani. Intervista a Mark Allison di Amnesty International Mark Allison è un ricercatore di Amnesty International e dal 2003 si occupa di diritti…

Tratto da Altreconomia 95 — Giugno 2008

In attesa delle Olimpiadi e della consacrazione internazionale della Cina, il punto sul delicato tema dei diritti umani. Intervista a Mark Allison di Amnesty International


Mark Allison è un ricercatore di Amnesty International e dal 2003 si occupa di diritti umani in Cina. Da Hong Kong -dove lo abbiamo raggiunto- Allison segue la situazione delle minoranze etniche, le restrizioni e gli abusi inflitti agli attivisti per i diritti umani, ma anche l’applicazione della pena di morte e le riforme del sistema giudiziario cinese.

Quali sono le violazioni dei diritti umani più gravi commesse in Cina?

L’applicazione della pena di morte e la detenzione senza processo -una pratica legata alla “rieducazione attraverso il lavoro”- utilizzata per reprimere le proteste da quando sono iniziati i preparativi per le Olimpiadi; la mancanza di libertà di stampa, in particolare la censura dei siti internet;le pressioni a cui sono sottoposti i difensori dei diritti umani. Sulla pena di morte, noi stimiamo che in Cina nel 2006 ci siano state 1.010 esecuzioni e 2.790 condanne a morte, ma di certo i numeri reali sono più alti.

Secondo la Fondazione Dui Hua, che si trova negli Stati Uniti e si basa sulle informazioni avute da residenti in Cina che hanno accesso ai dati ufficiali, il dato reale del 2006 si aggira intorno alle 7.500-8.000 esecuzioni. Un elemento che potrebbe far diminuire il numero delle condanne a morte è la riforma del sistema giudiziario, che dal 1° gennaio 2007 prevede che sia la Corte suprema del popolo l’organo centrale incaricato di approvare tutte le condanne a morte. Questa nuova procedura dovrebbe sottrarre potere e autonomia ai tribunali locali e garantire maggior trasparenza durante i processi. Forse ridurrà le condanne, anche se il vero problema rimane la dipendenza della Corte Suprema dal potere politico. In Cina la pena di morte è prevista per ben 68 reati, inclusi quelli non violenti e anche di tipo economico come l’evasione fiscale. Il governo non si pronuncia sull’abolizione e il Paese ha bisogno di una stampa più libera che alimenti il dibattito sulla libertà e i diritti.

Esiste un associazionismo cinese attivo per difendere i diritti umani?

In Cina sono sempre di più le persone che cercano di sollevare il problema dei diritti umani. In generale si tratta di singoli individui che danno vita a una protesta piuttosto che di gruppi veri e propri, perché riunirsi e organizzarsi è complicato. La modalità d’azione comunque dipende anche dal tipo di protesta che si porta avanti: è più facile trovare gruppi di attivisti che lottano per l’ambiente o i diritti delle donne, ma non appena ci si mette contro le politiche ufficiali si rischia l’arresto. Un esempio è quello di Hu Jia, attivista che Amnesty ha adottato come prigioniero di coscienza (nella foto a destra).

Jia all’inizio si occupava di Aids, ma negli ultimi anni si è battuto per i diritti umani in senso più ampio, fino alle proteste per le “pulizie”, o arresti di massa, che la polizia di Pechino porta avanti da quando sono iniziati i preparativi per le Olimpiadi.

Un altro tipo di violazione sono le espropriazioni forzate di case e terreni. Dati del ministero della Terra e delle risorse affermano che nel 2006 le espropriazioni sono arrivate a 100mila ettari.

L’espropriazione della casa è da considerarsi una violazione se avviene senza giusta compensazione. Ci sono attivisti condannati a scontare anni di detenzione senza processo per essersi schierati contro gli espropri. Yang Chunlin, ad esempio, è un attivista per il diritto alla terra arrestato e condannato a cinque anni di carcere per aver promosso una campagna dal titolo “Non vogliamo le Olimpiadi ma i diritti umani”. Il fenomeno è stato legato alle Olimpiadi perché molte nuove infrastrutture sono sorte su territori confiscati. Ma da anni gli espropri avvengono in tutta la Cina e causano proteste feroci soprattutto nelle aree rurali.

Chi difende gli attivisti e i prigionieri di coscienza?

Ci sono avvocati che si dedicano alla causa dei diritti umani, ma da quando le proteste sono diventate più numerose il governo ha cominciato a ostacolare il loro lavoro. Uno dei metodi di controllo più utilizzati è negare il rinnovo annuale della licenza necessaria per esercitare la professione. Ma anche i giudici non sono più così indipendenti. In Cina nessuno che faccia parte del sistema legale è indipendente.

Le autorità dicono di agire in nome della sicurezza.

La polizia ha anche fatto sapere che per assicurare un ambiente sereno durante i Giochi olimpici intensificherà gli arresti degli elementi che arrecano disturbo e che verranno rieducati attraverso il lavoro. Questa cosiddetta rieducazione può portare a una detenzione fino a tre anni senza processo e viene utilizzata per prevenire le proteste. Esiste un disegno di legge per sostituire il programma di rieducazione, ma è lì da anni e per ora non se ne è fatto nulla. Il sospetto è che la polizia sia riuscita ad usare i grandi eventi per dimostrare che la sicurezza è così importante che il tema diventa intoccabile.

Per le Olimpiadi potrebbe ripetersi un’ondata di violenza come quella del Tibet?

Finora le autorità cinesi hanno fatto molta attenzione ad impedire ogni tipo di protesta. Anche il fatto che gli avvocati non siano più in grado di seguire le cause liberamente e siano molto più controllati è un messaggio chiaro per la gente. All’inizio le proteste in Tibet erano pacifiche ma la gente è stata imprigionata comunque, e questo può accadere in ogni parte della Cina.

Sui media cinesi le proteste tibetane sono state mostrate in una prospettiva unilaterale, e questo ha condizionato il giudizio della gente. Alcuni dissidenti cinesi però hanno preso posizione, e con un comunicato hanno affermato il loro disaccordo riguardo alla reazione del governo. Ovviamente il discorso non è stato ripreso dai media cinesi, mentre c’è stato un grande dibattito sul modo in cui i mezzi di informazione internazionali hanno raccontato le proteste.

In occasione delle Olimpiadi le autorità hanno introdotto nuove regole per i giornalisti stranieri consentendo maggior libertà, ma il nuovo regolamento resterà in vigore solo fino all’ottobre 2008 e non è stato applicato in Tibet.

Grazie alla crescita economica e allo sviluppo dei grandi centri l’immigrazione interna è diventata un fenomeno importante.

In Cina l’immigrazione è un problema grave. Dal 1950 esiste un sistema di controllo molto rigido per cui tutti i cittadini devono essere registrati nel luogo di nascita e quando si cambia residenza non sempre si riesce a modificare la registrazione. Così gli abitanti delle zone rurali che si spostano verso le città diventano cittadini di seconda classe per quanto riguarda l’accesso ai servizi, la scolarizzazione dei figli, le assicurazioni. Un problema generalizzato invece è quello dei diritti legati al lavoro, a partire dal fatto che la Cina non ammette i sindacati indipendenti e se non si è iscritti al sindacato ufficiale si rischia l’arresto.

Una nuova legge sul lavoro che include miglioramenti importanti in termini di contratto e garanzie per i lavoratori esiste, ma in questo Paese c’è un’ampia distanza tra la legge e quello che avviene nella pratica.



Vincere gli ostacoli: il rapporto di abiti puliti

“Il solo fatto di collegare visibilmente il proprio marchio alle Olimpiadi può valere per le maggiori imprese dell’abbigliamento parecchi miliardi di dollari. […] Ma i notevoli successi conseguiti dall’industria mondiale dell’abbigliamento sportivo nell’ultimo quadriennio sono dovuti anche al fatto che essa paga alle lavoratrici, che sono la grande maggioranza di questo settore, salari che variano tra i 25 dollari al mese (Bangladesh) e i 116 dollari (Sri Lanka)”. Parole del sociologo Luciano Gallino, scritte per l’introduzione di “Vincere gli ostacoli: come migliorare salari e condizioni di lavoro nell’industria globale dell’abbigliamento sportivo”. Il lavoro è l’edizione italiana del rapporto internazionale che la campagna “Play fair at the Olympics” (www.playfair2008.org) realizza ogni quattro anni, in occasione dei Giochi.

La campagna è sostenuta dalla Clean Clothes Campaign, dall’International Trade Union Confederation e dall’International Textile, Garment and Leather Worker’s Federation, oltra a una serie di organizzazioni nazionali. Tra queste la campagna “Abiti puliti” (www.abitipuliti.org), che ha curato il rapporto in italiano. Al suo interno, un esame dell’industria mondiale dell’abbigliamento sportivo, monopolizzata da Nike, Adidas e Puma, che in Borsa valgono 50 miliardi di dollari e fanno profitti per 3,8 miliardi, e per il 95% della produzione hanno delocalizzato in Paesi emergenti, e fra questi la Cina. Tra i marchi italiani val la pena di ricordare Freddy, Kappa, Lotto e Diadora. I problemi del comparto sono sempre gli stessi: precarietà, mancanza di libertà sindacali, salari troppo bassi. Il rapporto analizza ognuno di questi aspetti, a partire da centinaia di interviste realizzate sul campo in Cina, India, Tailandia e Indonesia, per arrivare alla conclusione che, nonostante le pressioni, le violazioni dei diritti dei lavoratori sono per lo più ancora la norma. Il rapporto è scaricabile dal sito di Abiti puliti e dal nostro. 500 copie sono state inoltre distribuite nelle botteghe del commercio equo che vendono Altreconomia.

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