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Diritti / Opinioni

La clessidra sottosopra del 41 bis. Sempre dalla parte del potere

Due persone asserragliate su una gru in via Verdi a Milano per protestare contro il 41 bis. Novembre 2022 © Sergio Agazzi / Fotogramma

Cecco Bellosi, da trent’anni coordinatore dell’Associazione Comunità Il Gabbiano, ripercorre la storia del regime di detenzione che oggi s’incrocia con la vicenda di Alfredo Cospito. “La filosofia è sempre la stessa: rinchiudere dentro la logica della sicurezza la pratica della vendetta”

Che cosa c’entra Alfredo Cospito con il 41 bis? E che cosa c’entra il 41 bis con la Costituzione? Partiamo dalla seconda domanda. Perché è da questa che deriva la prima.
La legge 354 del 26 luglio 1975 sull’Ordinamento penitenziario, all’articolo 1, recita che “il trattamento deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”. All’epoca, a smentire questo principio direttivo, era stato inserito l’articolo 90, come “disposizione finale e transitoria”. Molto finale e poco transitoria.

Argomentava: “Esigenze di sicurezza. Quando ricorrano gravi motivi di ordine e sicurezza, il ministro per la Grazia e la Giustizia ha facoltà di sospendere, in tutto o in parte, l’applicazione in uno o più stabilimenti per un periodo determinato, strettamente necessario, delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza”.
Due anni dopo, nel 1977, sarebbe stato inaugurato il “circuito dei camosci” nella forma delle carceri speciali riservate ai detenuti classificati come pericolosi: militanti delle organizzazioni della lotta armata, giovani ribelli appartenenti alle batterie di rapinatori, pochi appartenenti alle organizzazioni mafiose che, soprattutto in Sicilia, erano ancora solide alleate dello Stato. C’era anche qualche fascista di Ordine Nuovo, ma alcuni tra loro, come Franco Freda e Guido Giannettini, ne sono usciti quasi subito, essendo anche loro complici dello Stato.

Le misure previste dall’articolo 90 cominciarono a essere applicate a partire dal 1978, in maniera sempre più restrittiva. Passando dalla censura sulla posta, ai colloqui con i vetri divisori, all’abolizione dei pacchi viveri, alla riduzione degli spazi per le ore d’aria, ristrette a una al giorno e in sei per volta, all’impossibilità di ricevere libri se non dopo la loro scomposizione in fascicoli separati.
La costituzionalità di quel provvedimento veniva messa sempre più in discussione su diversi versanti: esperti di diritto, esponenti politici e, piano piano, anche una buona parte dell’opinione pubblica.

Dopo sei anni non si poteva più parlare di emergenza, rinnovata di sei mesi in sei mesi con circolari affisse in bacheca, al punto che la commissione Giustizia del Senato presieduta da Mario Gozzini iniziò il proprio lavoro proprio su quel punto specifico: la revisione dell’articolo 90. A favorire la sua soppressione contribuì in maniera significativa uno sciopero della fame protratto e condotto da oltre mille detenuti nelle carceri di massima sicurezza.
La cosiddetta “legge Gozzini”, oltre all’apertura condizionata a istituti come il lavoro all’esterno attraverso l’applicazione dell’articolo 21, alla concessione dei permessi premio e all’affidamento sul territorio per le pene e i residui pena inferiori a tre anni, introduceva l’articolo 41 bis, a identificare le situazioni di emergenza, ma anche la loro durata, che non poteva essere protratta nel tempo come era accaduto per l’articolo 90.
Nella formulazione iniziale, recitava così: “In casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il ministro di Grazia e Giustizia ha facoltà di sospendere nell’istituto interessato o in parte di esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto”.
Già, la durata strettamente necessaria: per ora sono passati solo trentasei anni.

Questo anche perché nel 1992, dopo le stragi compiute dalla mafia, al 41 bis è stato aggiunto il secondo comma: “Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del ministro dell’Interno, il ministro della Giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo comma dell’articolo 4 bis, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza”.
L’articolo 4 bis prevede l’esclusione dal lavoro esterno, dai permessi premio e dalle misure alternative per i detenuti condannati per l’articolo 416 bis, l’associazione a delinquere di stampo mafioso; per l’articolo 630, il sequestro di persona a scopo di estorsione; e per l’articolo 74 della legge 309 del 1990 sulle droghe per l’associazione a delinquere ai fini di spaccio. Se non diventano collaboratori di giustizia.

Nel 2002 il comma 2 dell’articolo 41 bis è stato ulteriormente inasprito: “Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del ministro dell’Interno, il ministro della Giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell’articolo 4 bis, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamento con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. La sospensione comporta le restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze e per impedire i collegamenti con l’associazione di cui al periodo precedente”.
Così questi detenuti non possono avere più di un colloquio al mese con i familiari, in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti: in altri termini, i colloqui si svolgono attraverso vetri divisori e vengono sottoposti a controlli auditivi e a registrazione. L’acquario ascoltato nel respiro.

Anche i colloqui telefonici sono stai ridotti a uno al mese. A seguire, l’esclusione dalle rappresentanze dei detenuti e l’immancabile visto della censura sulla posta. A chiudere il cerchio, un’ora d’aria al giorno, al massimo di cinque per volta. La sottrazione di un’unità, rispetto ai tempi dell’articolo 90, quando si poteva andare all’aria in sei per volta.

Ma la filosofia è sempre la stessa: rinchiudere dentro la logica della sicurezza la pratica della vendetta. Perché non si capisce che cosa abbiano a che fare le restrizioni interne con la possibilità di mantenere contatti con l’organizzazione di appartenenza.
Tortura, si tratta solo di tortura prolungata.
Dopo un lungo periplo, lo Stato non solo è tornato all’articolo 90, accusato con forti motivazioni all’epoca di incostituzionalità, ma è andato molto oltre. Il 41 bis non è anticostituzionale, è esattamente il rovescio della Costituzione. Invocata in teoria, negata nella pratica. La clessidra sottosopra. Sempre dalla parte del potere.

L’articolo 41 bis viola la Costituzione. Non solo nell’articolo 27: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, quando il 41 bis è radicalmente contrario a ogni senso di umanità e mira ad annientare il detenuto. Ma anche nell’articolo 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, che in carcere vengono puntualmente negati. E nell’articolo 13: “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”.

A partire da questa violenza esercitata nei suoi confronti entra in scena la vicenda drammaticamente kafkiana di Alfredo Cospito.
Rispetto a lui non torna nulla. Innanzitutto davanti alla richiesta dell’ergastolo per un attentato dimostrativo in piena notte con due ordigni deposti in un cassonetto vicino alla scuola per allievi ufficiali dei carabinieri di Fossano. A lui e alla sua compagna, Anna Beniamino, è stato contestato il reato di strage previsto dall’articolo 285, attentato alla sicurezza dello Stato. Una non strage senza alcuna vittima, nella realtà e nelle intenzioni. Ma quello che importa in maniera esasperata fino alla richiesta dell’ergastolo da parte della Corte di Cassazione è la sicurezza dello Stato minacciata in un cassonetto. Quando si dice l’ossessione da regime di Alfredo Rocco, riattualizzata quasi un secolo dopo. Il clima rimane quello.
Non a caso Benito Mussolini, che nella sua disinvolta carriera era riuscito in gioventù anche a diventare anarchico in Svizzera, da fascista ebbe poi gli anarchici costantemente nel mirino.

Ma il dramma umano e politico di Alfredo Cospito si declina anche nella relegazione al 41 bis. Cospito non appartiene a nessuna delle associazioni previste da quel regime di detenzione, di nessuno stampo. Per i due reati che gli sono stati contestati ha un’unica, o un unico, coimputato. E qualunque associazione prevede la presenza di almeno tre persone, fosse solo per il rispetto del diritto di maggioranza. Gli anarchici appartengono a un’idea, al massimo a labili tracce organizzative, mai a un’organizzazione gerarchica. Cultori della dimensione egalitaria e non verticistica. Alludere a una struttura piramidale dell’anarchia significa riconoscere un ossimoro. Infine, e qui si arriva al delirio di Stato e dei suoi burattini, a Cospito è stato contestato il fatto di avere scambiato in carcere delle parole con alcuni detenuti rinchiusi al 41 bis per l’appartenenza ad associazioni di stampo mafioso. Come se si fosse scelto lui la compagnia.

Diversi anni fa mi è capitato di stare per alcuni mesi in una sezione ad alta sicurezza, un termine che ritorna sempre come un mantra, con i cosiddetti killer delle carceri, detenuti che avevano ucciso altri detenuti. Spesso a pagamento. E voi pensate che io non abbia, anche solo per motivi di sopravvivenza e di sguardi pieni di ogni sospetto a ogni mancanza di saluto, scambiato qualche parola con qualcuno di loro? Sono stato anche, nel braccio speciale di Rebibbia, con alcuni detenuti fascisti dei Nar. Ebbene sì, all’aria ho scambiato qualche parola anche con loro. In questo caso non per istinto di sopravvivenza ma per comune detenzione. Li detestavo ma in quel momento eravamo nello stesso luogo.

Lo stesso luogo che non ha condiviso l’attuale presidente del Consiglio, loro nipote per tradizione comune: motivo per cui la lontananza da lei, o da lui, è molto più abissale. Almeno loro qualcosa hanno pagato, alla strategia della tensione. Lei ne ha solo ereditato i velenosi frutti. Senza pagare dazio. Rivendicando persino la lotta contro la mafia, quando le cronache e gli scheletri degli armadi della sua coalizione politica rigurgitano di amici veri, e non costretti a convivervi, delle organizzazioni mafiose.
Questo permette oggi al presidente del Consiglio, come aveva già fatto il suo predecessore Benito Mussolini, di condannare a morte l’anarchico. Il nemico del regime.
La cui lotta non è solo contro l’ingiustizia che sta subendo, ma è contro il regime disumano e degradante del 41 bis. Per questo non possiamo che stare con lui e con la sua lotta. Contro il fascismo di ieri. E, diverso ma uguale, di oggi.

Cecco Bellosi da oltre trent’anni lavora come coordinatore dell’Associazione Comunità Il Gabbiano, che si occupa di tossicodipendenti, persone con problemi di sofferenza psichica, detenuti, minori in difficoltà, malati di Aids, ed è attiva in Lombardia dal 1983. Ha pubblicato Il paese dei contrabbandieri (Nodo Libri, 1995), Piccoli Gulag (DeriveApprodi, 2004), Con i piedi nell’acqua (Milieu, 2013), Sotto l’ombra di un bel fiore (Milieu, 2018), L’orlo del bosco (DeriveApprodi, 2022).

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