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Ambiente

La chimera di Kashagan

L’Eni e il petrolio del Mar Caspio: un progetto in fase di stallo, tra tensioni geopolitiche e uno sfruttamento costoso e difficile

Per Eni, quello di Kashagan, in Kazakhstan, è “il petrolio irrinunciabile”. Così abbiamo titolato, nel novembre del 2007 (Ae 88), il reportage di Elena Gerebizza dal Paese dell’Asia centrale, frutto di una missione internazionale di monitoraggio sulle condizioni sociali ed ambientali nella regione in cui un consorzio guidato dal “cane a sei zampe” sta esplorando uno dei più grandi giacimento di idrocarburi scoperti negli ultimi 30 anni. Il sentiero è, però, lastricato di problemi: già il premier Romano Prodi, nell’ottobre 2007, volò in Kazakhstan per affrontarli. Sono passati tre anni, ma le tensioni continuano a crescere. Tanto che Kashagan si è trasformata in una "chimera".   


Le ultime novità rispetto al progetto di Kashagan fanno pensare che una nuova resa dei conti si stia preparando tra l’esecutivo kazako e il consorzio internazionale di compagnie petrolifere che ha in mano l’esplorazione di uno dei più grandi giacimenti di idrocarburi scoperto negli ultimi 30 anni. Parliamo del progetto del consorzio internazionale North Caspian Operating Company B.V. (NCOC), formato da Eni, Total, Royal Dutch Shell, ConocoPhillips, ExxonMobil, Inpex e dalla società pubblica kazaka KazMunaiGas (nella foto in apertura l’ad di Eni Paolo Scaroni è con Kairgeldy Kabyldin, presidente dell’azienda).



Secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa internazionale Reuters, il ministro del Petrolio kazako Sauat Mynbayev ha di recente dichiarato che lo sviluppo della seconda fase del giacimento di Kashagan sarà probabilmente rinviato al 2018-19. “La decisione è legata soprattutto ai costi. Non ci serve incorrere in costi insani nella seconda fase” avrebbe dichiarato al Novosti-Kazakhstan lo stesso ministro, ripreso da Reuters.
Costi insani come quelli sostenuti nel corso della prima fase di sviluppo del progetto, quella di costruzione, per altro non ancora terminata, che sarebbero stimati in oltre 30 miliardi di dollari. A fine 2009 lo stesso ministro aveva annunciato una riduzione del 30% dei costi complessivi del progetto, quantificata prima in 136 miliardi di dollari. Nel frattempo è stata avviata proprio da una corte kazaka un’indagine internazionale per frode fiscale a carico dell’Eni, che dal 2002 è responsabile della costruzione delle infrastrutture necessarie a permettere lo sfruttamento di Kashagan.



Un ulteriore giro di vite, quindi, da parte del governo di Astana, che già dal 2007, con l’avvio della rinegoziazione dell’accordo di estrazione (Northern Caspian Production Sharing Agreement) sta cercando di riprendere il controllo di Kashagan.
Secondo l’analisi dei nuovi termini economici dell’intesa fatta dall’Ong inglese Platform, dalla Campagna per la riforma della Banca mondiale e da altre organizzazioni in “The Kashagan stitch-up”, proprio a causa dell’ulteriore posticipo della fase di costruzione -annunciato allora per il 2011- e nonostante i nuovi termini, il Kazakistan si trovava in una posizione ancora più svantaggiosa della precedente. In base allo studio del 2008, infatti, il valore presente netto (Npv) ricevuto dal governo kazako sarebbe migliorato di 3,5 miliardi di dollari grazie ai nuovi termini dopo la rinegoziazione, ma sarebbe peggiorato di 8,7 miliardi di dollari a causa del ritardo ulteriore dal 2010 al 2011. Questo significava per il Kazakistan una perdita di circa 5 miliardi di dollari di future entrate.



Oggi, con la conclusione della “fase uno” slittata ulteriormente alla fine del 2012, come annunciato da Eni a marzo di quest’anno, è chiaro come l’accordo sia diventato ancora più svantaggioso per il governo kazako, che dovrà aspettare che il giacimento vada in piena produzione -1,5 miliardi di barili al giorno alla fine della terza fase, secondo le proiezioni di Eni- per iniziare ad andare in attivo sul progetto.
Sul petrolio di Kashagan, intanto, hanno messo gli occhi da subito i governi europei, che non hanno mancato di schierarsi a fianco delle proprie multinazionali nel momento in cui è iniziato il testa a testa con il Kazakistan, soprassedendo alle evidenti problematiche ambientali e alle garanzie limitate fornite dalle compagnie per estrazioni secondo molti ad alto rischio, visto che si svolgono in un mare chiuso come il Caspio.
Una situazione di equilibri precari che passa anche attraverso un sistema di trasporto del petrolio e del gas proveniente dalla regione su cui gli europei vogliono avere in controllo indiscusso. Per farlo serve un nuovo oleodotto, che bypassi quelli esistenti a partecipazione russa, e porti il petrolio di Kashagan direttamente verso i porti europei, attraverso il tanto contestato oleodotto Btc. La soluzione individuata potrebbe essere il Kazakh Caspian Transport System (Kcts), un oleodotto di 700 chilometri che dovrebbe completare la linea di trasporto del petrolio kazako verso Baku in Azerbaigian, e per cui il governo kazako e quello azero stanno cercando i finanziamenti. Far scorrere il petrolio di Kashagan prima che il nuovo oleodotto sia pronto aumenterebbe le complicazioni della “geopolitica del petrolio” tra Europa e Asia centrale.

Sarà questo uno dei motivi dietro all’annunciato posticipo della seconda fase, o semplicemente il fatto che nonostante gli sforzi e i miliardi spesi, il petrolio di Kashagan sia semplicemente troppo difficile da estrarre?

* Campagna per la riforma della Banca mondiale (Crbm)

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