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Opinioni

La centralità del “lavoro”

Un silenzio assordante ha accompagnato i clamori suscitati dalle vicende dei minatori del Sulcis, degli operai dell’Alcoa, della chiusura dell’Ilva, della sostanziale dismissione della Fiat e di tutte quelle altre situazioni di aziende in crisi, abbastanza grandi da essere finite in un dossier in cui il governo ha catalogato oltre 150 “tavoli”.

Tratto da Altreconomia 142 — Ottobre 2012

Vengono definite “perenni emergenze”, nella maggior parte dei casi senza rendersi conto che l’espressione è un ossimoro.
La trappola è che negare l’evidenza è sempre più difficile, e l’evidenza è che le miniere di carbone non hanno senso (se mai ne hanno avuto in Italia), così come non ha senso illudersi che la cattura di CO2 sia un’attività economica reale; l’evidenza è che una multinazionale straniera cui gli italiani hanno pagato la bolletta della luce attraverso le proprie fino a ieri, finita la pacchia, non può far altro che pensar bene di andarsene con tanti ringraziamenti e utili in bilancio. La trappola è pensare -sul serio!- che se si vuole occupazione ci si deve prendere anche l’inquinamento e i tumori, come se un’alternativa non fosse praticabile. Come se i profitti dei proprietari fossero incontrovertibili e tutto il resto dovesse dipenderne a cascata.
La trappola è sperare che manager arroganti e strapagati (e proprietari compiacenti) mettano nei loro conti economici aziendali i doveri di un’industria verso la collettività, e non solo verso gli azionisti. Specie quando questi ultimi sono stati foraggiati per decenni dalla casse dello Stato. L’evidenza è che il sistema produttivo italiano -e mica solo quello- va ripensato, in senso efficiente, ecologico, equo.
Ma questo già lo sappiamo.
Tra trappole e evidenze il silenzio rimane. All’autunno caldo degli scioperi e delle rivendicazioni si è sostituito un inverno gelido di rassegnazione alla disoccupazione e al precariato.
Non parlarne, non mettere al centro del dibattito pubblico economico -ammesso che questo esista- la questione è il più grave scandalo di questi tempi, direbbe con la consueta lucidità il professor Luciano Gallino. Accettare con qualche borbottìo l’incredibile tasso di disoccupazione giovanile da una parte, e l’eccezionale numero di persone che un’occupazione hanno addirittura smesso di cercarla, è un torto grave verso la società, un’azione a dir poco irresponsabile.
Ecco allora che per la prima volta scriviamo la parola “lavoro”, perché il lavoro dovrebbe stare sempre al centro anche dei nostri discorsi (quelli di questa rivista e dell’economia solidale in genere).
Ragionandone non come di un’attività che semplicemente ci porta reddito da spendere in consumi (questo è quel che vorrebbe farci credere il capitalismo), ma il lavoro inteso come realizzazione di sé, della propria dignità di essere umano.

Nel 1986 Philip Roth intervistò Primo Levi per la rivista New York Times Book Review. Una traduzione di quell’articolo apparve poi su La Stampa. (Pensate a che incontro straordinario dev’essere stato). Il dialogo verte proprio sul lavoro (anche nella sua “orrenda parodia” praticata ad Auschwitz, dice Roth) e Levi a un certo punto spiega: “Sono convinto che l’uomo normale è biologicamente costruito per un’attività diretta a un fine, e che l’ozio, o il lavoro senza scopo (come l’Arbeit di Auschwitz) provoca sofferenza e atrofia. […] Ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del ‘lavoro ben fatto’ è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale”.
La dignità della professione è l’evidenza del talento che ciascuno ha il diritto di poter dimostrare a se stesso e agli altri, al di là della ipocrita retorica della “meritocrazia” oggi tanto in voga.
La dignità della professione -in un contesto in cui si ragiona tanto su indicatori di benessere alternativi al prodotto interno lordo, o perlomeno ad esso complementari- è anche pretendere benessere nel lavoro, in quell’attività -formale o informale, salariata o non salariata- che conduciamo per la maggior parte della nostra giornata, per la maggior parte dell’anno, per la maggior parte dei nostri anni. —

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