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La casa? Costruitevela! – Ae 76

Mercato immobiliare alle stelle, ma anche voglia di altri modi d’abitare. In Italia si fannno spazio nuovi progetti (co-housing) e vecchie idee, come il fai da te Casa dolce casa? Sinonimo di stabilità e sicurezza, la casa è un desiderio…

Tratto da Altreconomia 76 — Ottobre 2006

Mercato immobiliare alle stelle, ma anche voglia di altri modi d’abitare. In Italia si fannno spazio nuovi progetti (co-housing) e vecchie idee, come il fai da te


Casa dolce casa? Sinonimo di stabilità e sicurezza, la casa è un desiderio difficile da realizzare. La chiamano “fragilità abitativa” ed è una patologia sociale. Le cause: prezzi del mercato immobiliare alle stelle e affitti da capogiro. I sintomi, famiglie italiane indebitate per 180 miliardi di euro tra mutui e finanziamenti. Ecco allora nuove soluzioni che arrivano da lontano, dalla nostra storia, e coinvolgono tanto le famiglie quanto le amministrazioni locali. Un processo che aiuta anche l’integrazione sociale, tra vecchi e nuovi cittadini. Perché la casa è anche appartenenza a una comunità, un bene d’uso prima ancora che un bene di consumo, dove le persone possano vivere momenti e spazi comuni, tessere relazioni e costituire nuclei comunitari. Cresce anche in città il desiderio di un vicinato diverso e di condivisione, che le grandi metropoli hanno lentamente eroso riducendo le case a unità isolate prima ancora che private.



Siamo tutti muratori

Posa il grosso mattone bianco, un altro pezzo di muro, e controlla che sia bene in linea con gli altri: costruire case è il suo mestiere. Di solito però Adel costruisce case agli altri, invece oggi è sabato e la casa che sta tirando su è la sua. Ha 43 anni ed è arrivato dall’Egitto 10 anni fa. Due dei suoi tre figli sono nati qui, a Trezzo sull’Adda, in provincia di Milano, dove tutta la famiglia vive, in affitto, da sette anni. A pochi metri da lui Mauro lavora con la stessa passione ma -forse- meno naturalezza. D’altra parte lui di mestiere fa il carrozziere. È venuto al Nord da Gallipoli 25 anni fa, quando aveva solo 14 anni, per lavorare. Ora ha due figli e vive a Trezzo da 13 anni. È anche lui in affitto, non è facile avere un mutuo, spiega. E per questo anche lui ha deciso di costruirsela, una casa. Dal cantiere di via Allende dove Adel e Mauro, insieme ad altre 10 persone, stanno lavorando sorgeranno due palazzine di tre piani, 12 appartamenti in tutto. Non c’è un’impresa costruttrice, tutto il lavoro è affidato ai futuri inquilini. Il termine per loro è autocostruttori: per fronteggiare il caro casa (affitto o acquisto che sia) si improvvisano muratori, elettricisti e idraulici e nel tempo libero costruiscono con le proprie mani l’appartamento dove abiteranno. Il risultato è una casa che costerà la metà di quanto avrebbe imposto loro il mercato immobiliare. Un ritorno al passato, quando era cosa normale costruirsi casa da sé, ma anche uno sguardo al futuro, perché l’autocostruzione è anche un progetto di integrazione. Così l’ha inteso anche l’amministrazione comunale di Trezzo, che nel 2005 emette un bando per trovare 12 autocostruttori cui affidare un terreno su cui costruire le proprie case. I requisiti sono un reddito massimo che vada dai 17 mila ai 35 mila euro a seconda dei componenti del nucleo familiare, la residenza o anche solo il luogo di lavoro nel comune e l’iscrizione alla graduatoria per le case popolari (in paese gli iscritti sono un centinaio). Non serve nessuna competenza in fatto di muri o tubature. All’appello rispondono 25 famiglie, ne vengono scelte 12. La metà sono immigrati da anni in Italia: vengono da Senegal, Egitto, Marocco, Tunisia. Il terreno appartiene all’Aler, l’azienda di edilizia popolare. Da parte sua, il Comune quasi azzera gli oneri di urbanizzazione. I 12 invece ci mettono il lavoro: tutti i fine settimana e il tempo libero lo passano al cantiere. Uomini e donne, quando possono anche parenti e amici. Almeno 60 ore al mese per riuscire a completare gli alloggi in un paio d’anni. Il cantiere è finanziato dall’Aler, che è titolare del progetto e paga per l’acquisto dei materiali. Per i primi 10 anni Aler sarà anche proprietario degli appartamenti e chiederà alle famiglie un canone di 370 euro mensili, da aggiornare con gli indici Istat dell’inflazione. Al termine del decennio, ciascuna famiglia potrà decidere se riscattare la casa, a un prezzo già fissato di 77 mila euro. Novanta metri quadri tra sala, camere, cucina e bagni: un buon affare per il quale val la pena di sacrificare le vacanze estive.

Il ritorno all’autocostruzione è una soluzione di largo successo in Inghilterra, Germania, Danimarca e Olanda. In Italia l’ha lanciata l’organizzazione non governativa Alisei di Milano (www.alisei.org), che l’ha prima sperimentata nei Paesi in via di sviluppo e nei Balcani e poi importata da noi. Da tempo in Italia Alisei si occupa del problema casa e di integrazione sociale. Il suo ruolo è quello di proporre alle amministrazioni locali l’autocostruzione come rimedio, sia pur parziale, alle difficoltà abitative, e una volta incassata la disponibilità l’ong accompagna amministratori e cittadini lungo tutto il percorso dell’autocostruzione, dalla progettazione dell’immobile passando per la selezione dei beneficiari fino alla consegna della casa. Hanno chiamato l’operazione “Un tetto per tutti” e sinora in Italia hanno avviato 21 cantieri per 370 alloggi, ma in progetto di appartamenti ce ne sono almeno altri 210 (vedi www.autocostruzione.net). I primi lavori sono partiti già nel 2003, in Umbria (Terni, Perugia, Marsciano), poi in Emilia e oggi anche in Veneto e in Lombardia. Tranne che in quest’ultima, nelle altre regioni sin da subito le case vengono acquistate dagli autocostruttori, che chiedono direttamente il finanziamento (una volta costituitisi in cooperativa) a un istituto di credito.

Tra gli altri, la stessa Banca Etica ha finanziato i cantieri di Ravenna, Perugia e Piangipane (sempre Ravenna) con oltre 7 milioni di euro per 86 alloggi. In Lombardia, dove oltre a Trezzo sono partiti progetti di autocostruzione a Paderno Dugnano, Pieve Emanuele e Besana Brianza (tutti in provincia di Milano), la Regione ha messo a disposizione un fondo per finanziare fino al 20% del costo del progetto, da restituire dopo 10 anni dal termine lavori. Gli autocostruttori vengono formati, cioè viene insegnato loro il lavoro da svolgere man mano che il cantiere evolve. Il progetto edilizio è studiato apposta per essere realizzato anche da personale non esperto, e in questo senso vanno anche alcune scelte architettoniche e l’utilizzo di materiali (come i grossi mattoni bianchi di cemento espanso, che ricordano grossi pezzi di Lego) facili da assemblare. Da Alisei proviene anche il direttore dei lavori che supervisiona per l’intera durata il cantiere e verifica le ore di lavoro svolte da ciascuno. Nessuno sa quale degli alloggi gli verrà assegnato, tutti lavorano senza sapere di chi sarà il muro che stanno tirando su. Solo alla fine gli alloggi vengono sorteggiati tra gli autocostruttori, che già ora formano un gruppo di vicini di casa coeso e multietnico.Tra loro Driss, che ha 42 anni ed è arrivato dal Marocco 16 anni fa. Il suo secondo figlio è nato in Italia. Lavora nel campo dei prefabbricati, se ne intende di costruzioni e per questo non crede che riusciranno a finire in due anni. Manca il rispetto degli orari, mi dice sorridendo. Ma pazienza, il progetto è bello e utile, e questa casa la costruisce per i suoi figli. Il loro futuro è qui.



Il Paese impopolare

In Italia sono circa 800 mila gli alloggi di edilizia residenziale pubblica, le “case popolari” date in affitto. Rappresentano il 4% del patrimonio abitativo nazionale. All’estero le cose vanno un po’ diversamente: in Olanda gli alloggi sociali sono il 35% del totale, in Gran Bretagna sono un quinto e in Francia -dove per i prossimi 5 anni è prevista la costruzione di 100 mila alloggi popolari- il 18% del totale.L’Italia investe sempre meno nell’edilizia popolare. Secondo i dati del ministero della Solidarietà sociale (www.welfare.gov.it), nel 1984 si costruivano 36 mila alloggi popolari. Nel 2004 il numero è sceso a 1.900, perché il fondo Gescal (gestione case lavoratori) sul quale si reggeva il sistema non viene più finanziato dalle buste paga dei lavoratori dipendenti dalla riforma Dini del 1992, e va esaurendosi anche perché negli anni è stato utilizzato anche per altri fini diversi dall’edilizia popolare. Questo a dispetto delle 600 mila famiglie in graduatoria per l’assegnazione di una casa popolare. “Ma il vero problema sono gli affitti” spiega Massimo Pasquini, capo segreteria del ministro del Welfare Paolo Ferrero. “Un esempio: a Roma dal 1994 sono state emesse 40 mila sentenze di sfratto per morosità, cioè perché non veniva pagato l’affitto. Nello stesso periodo, gli aventi diritto per essere iscritti alla graduatoria delle case popolari erano solo 8 mila. È la sofferenza del ceto medio: ha redditi troppo alti per poter accedere all’edilizia sociale, ma troppo bassi per permettersi affitti onerosi o l’acquisto della casa. Un problema nazionale: l’osservatorio del ministero dell’Interno ci dice che nel 2004 in Italia sono state emesse quasi 44 mila sentenze di sfratto. Di queste, almeno 43 mila per morosità”. Le case popolari rappresentano il 21% del totale delle case affittate in Italia. Ancora all’estero: in Olanda gli alloggi sociali sono il 77% del totale di quelli in affitto, in Gran Bretagna oltre il 68% e in Francia quasi la metà.

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Ho un vicino condiviso

Il futuro delle città è una sala da pranzo condivisa. Lo pensa nel 1964 l’architetto danese Jan Gudmand-Høyer, quando con un gruppo di amici si chiede come riprodurre in città i benefici tipici del villaggio: una comunità unita, spazi condivisi e disponibilità di tempo gli uni verso gli altri. È il primo esperimento di co-housing, o co-residenza, e da allora l’esperienza è stata replicata in tutto il mondo e ormai coinvolge migliaia di persone, soprattutto in Scandinavia, Olanda, Inghilterra, Stati Uniti, Canada, Australia e Giappone.

L’essenza del co-housing sta nella volontà di un gruppo di persone di scegliersi (vicinato elettivo) per dar vita a una “comunità urbana”, e per progettare in maniera partecipata il complesso dove andrà ad abitare. Ogni famiglia ha la propria casa, ma nell’insediamento abitativo sono previsti spazi e servizi condivisi da tutti, decisi dalla comunità stessa. Di solito si tratta di gruppi di una trentina di famiglie, con spazi comuni che arrivano fino al 20% della superficie totale del complesso abitativo. Gli spazi e i servizi condivisi sono tipicamente uno spazio multifunzionale, magari con la cucina, dove mangiare tutti insieme, oppure una lavanderia comune o una sala per gli attrezzi a disposizione della comunità, o anche una stanza per i bambini che in alcuni casi può diventare un vero e proprio asilo. Spesso esiste un magazzino/dispensa per organizzare gruppi di acquisto e fare la spesa insieme. La condivisione di spazi e servizi, oltre che la socialità tra i vicini di casa, permette un risparmio per ciascuna famiglia sul budget per la casa, anche fino al 15%.

Ma è impossibile codificare con precisione: ogni co-housing è uguale solo a se stesso. “Il co-housing è un modello particolare di comunità urbana” spiega Matthieu Lietaert, ricercatore all’European University Institute di Fiesole (Firenze) e studioso del fenomeno del “vicinato elettivo”, sul quale sta realizzando un libro e un documentario (sono sue le foto di queste pagine; per informazioni documentario_cohousing@yahoo.it). “Il modello prevalente è quello danese, codificato -anche attraverso libri di successo- dall’esperienza americana. Ma ce ne sono anche altri tipi. Esistono caratteristiche che si incontrano più spesso di altre. Ad esempio

di solito gli insediamenti si trovano in periferia, o appena fuori dalle città. E sono fatti per abitarci, e non per lavorarci. Sono gruppi che non si creano in base a una particolare ideologia o credo religioso; il più delle volte parliamo di ceto medio, o comunque di famiglie che possono permettersi l’acquisto della casa a prezzi di mercato. Non mancano quasi mai una cucina condivisa e la sala da pranzo dove mangiare tutti insieme, che anzi è forse un aspetto fondamentale del successo di un co-housing, come gli spazi verdi e quelli per i bambini. Ma l’utilizzo degli spazi è flessibile, e segue l’evolversi della comunità. Si tengono riunioni periodiche per prendere le decisioni, a volte si formano gruppi di lavoro e di solito una specie di ‘comitato centrale’ di cinque persone per l’amministrazione generale. Le votazioni avvengono a maggioranza, ma in molti casi si utilizza il metodo del consenso. E non è detto che qualcuno non decida a un certo punto di andarsene”. Esistono alcune varianti al modello prevalente. In alcuni casi l’insediamento è lontano dalla città (e porta con sé anche esperimenti di autocostruzioni) oppure è più forte l’intervento pubblico, come in Svezia e in Olanda dove è l’amministrazione locale a fare il progetto, trovare il terreno su cui costruire e scegliere i destinatari. Una risposta a un’esigenza sociale che abbassa i costi della casa ma riduce la possibilità di un gruppo forte. Ormai nel mondo le co-residenze sono oltre un migliaio, per almeno 130 mila persone coinvolte. In California il 10% delle nuove costruzioni è progettato per il co-housing. Da quest’anno l’esperienza è arrivata anche in Italia. Tre progetti abitativi, due a Milano (quartiere Bovisa) e hinterland (Abbiategrasso), uno a Calambrone, provincia di Pisa, e un esperimento di uffici in condivisione, sempre a Milano (a Lambrate). Sono un centinaio le unità abitative previste, ma gli interessati sono oltre 3.500, l’80% dei quali a Milano (altre info: www.cohousing.it). I promotori dell’esperienza italiana sono il Dipartimento Indaco del Politecnico di Milano (www.indaco.polimi.it) e la società Innosense, sempre di Milano. Il Politecnico ha studiato il fenomeno e messo a punto gli strumenti attraverso i quali si formeranno le comunità di co-residenti, un processo che va dai 6 ai 9 mesi e che comprende la scelta di come destinare gli spazi condivisi. A Innosense spetta la responsabilità imprenditoriale dell’iniziativa: trovare l’area dove costruire o il complesso da ristrutturare, realizzare il progetto, raccogliere le manifestazioni di interesse, trovare l’impresa che realizzi i lavori e poi venda le case. Gli spazi comuni copriranno mediamente il 12/15%. È un’iniziativa profit e non c’è nessun intervento pubblico: gli appartamenti vengono consegnati a prezzi di mercato, 3 mila euro al metro quadro circa. Anche la voglia di socialità ha un costo.



Ma la corsa non si ferma è Roma la città più cara

Non si ferma la corsa dei prezzi delle case, ma almeno rallenta. È presto per annunciare un’inversione di tendenza, ma secondo i dati dell’osservatorio di Tecnocasa (www.tecnocasa.it), uno dei principali operatori tra le agenzie immobiliari, nei primi sei mesi del 2006 i prezzi sono aumentati in media “solo” del 3,6%, a fronte di un più 4,4% del primo semestre 2005.

Negli ultimi 5 anni i prezzi sono cresciuti a doppia cifra percentuale in tutta Italia, pur se con qualche differenza. Ad esempio un appartamento acquistato a Bari nel 2001 oggi viene rivenduto quasi al doppio; a Napoli la crescita dei prezzi è stata del 90,8%, a Roma del 78%, a Genova del 65,5%, a Palermo del 63% e a Milano del 52,8%. Soltanto a Bologna i prezzi sono aumentati “solo” del 39,9%. È Roma la città più cara, con prezzi al metro quadro che oscillano tra gli 8.500 mila euro del centro storico (con punte anche di 20 mila euro per piazza di Spagna) e i 1.600 della periferia, aumentati nell’ultimo semestre del 4,3%. Segue Milano, i cui prezzi (in aumento dell’1,7%) oscillano tra i 9 mila euro al metro quadro per un appartamento nuovo dalle parti di corso Vittorio Emanuele e i 1.700 euro nella periferia Ovest

di Inganni.



E c’è chi “autorecupera”

Chi non autocostruisce, autorecupera. Roma, Trastevere: nel 1989 un gruppo di persone occupa uno stabile comunale abbandonato perché mancano i fondi per ristrutturarlo. A proprie spese e con le proprie mani, gli occupanti mettono a nuovo l’immobile Da quell’esperienza nasce la cooperativa “Vivere 2000” che ispira una legge regionale, la 55 del 1998, destinata a sostenere progetti di autorecupero di immobili regionali. Un’altra esperienza legata alla casa ma con l’integrazione nel cuore è il progetto della cooperativa Coralli di Padova. La cooperativa è nata nel 1994 per dare una risposta al problema della casa

per italiani e immigrati. Oggi vanta la costruzione di un complesso edilizio per 18 alloggi e il cantiere di un altro stabile per 24 alloggi.

La cooperativa non costruisce però alloggi da vendere ai soci: la proprietà è indivisa, ovvero gli assegnatari delle case godono del bene comune secondo regole fissate dal consiglio di amministrazione.



Co-housing in Europa…

Sono centinaia le esperienze di co-housing all’estero. Una rapida carrellata inizia in Europa. Il Gemeenschappelijk wonen project è a Nieuwegein, nei Paesi Bassi. È il più grande progetto di coabitazione: 190 persone, 26 case condivise (stanze in comune per studiare, lavorare, dormire) e 21 appartamenti, un ristorante, un negozio dell’usato, giardini e spazi per praticare sport, un pub aperto fino all’una di notte (www.gwwebsite.com). A Londra si trova invece l’Older women’s CoHo, dedicato alle signore anziane, (www.cohousing.org.uk), mentre Roskilde, in Danimarca, ospita l’Ibsgaarden cohousing project, un villaggio di 21 appartamenti e una grande casa condivisa, dalla costruzione di tipo tradizionale (www.ibsgaarden.dk).



… e oltreoceano

Anche fuori dal Vecchio Continente, dove è nato, il co-housing ha avuto successo. Si parte dal Canada, al Quayside Village di Lower Lonsdale, non lontano da Vancouver. È una palazzina dotata di un cortile interno, un piccolo orto comune, un’area per il compostaggio, uffici, stanze per gli ospiti, sale da pranzo condivise (www.cohousing.ca/cohsng4/quayside). Tutte le comunità canadesi si trovano qui www.cohousing.ca/locations.htm. Quelle statunitensi, invece, qui: www.cohousing.org/cmty/groups.html, ed ecco, di seguito, qualche esempio.

In California da segnalare lo Swan’s Market di Oakland, realizzato in un ex-mercato ristrutturato che ospita 22 unità di abitazione con una sala e una cucina per incontri, una palestra, una hobby room, una lavanderia e una stanza per gli ospiti (www.swansway.com).

A un’ora da San Francisco, sempre in California, c’è Cotati (spazi condivisi: una lavanderia, sale per gli incontri e quattro negozi: www.cotaticohousing.org). Nello stesso Stato, ma a Emeryville, c’è poi il co- housing di Doyle Street, un vecchio capannone industriale in un quartiere periferico, vicino alla famosa università di Berkeley, trasformato e riadattato (www.emeryville-cohousing.org) A Silver Spring, nello Stato di Washington, si trova l’Eastern village Cohousing: 56 unità di condomini che variano dai 50 ai 180 metri quadrati, fra Washington e Silver Spring, una comunità urbana che condivide stanze per lo yoga, spazi gioco e biblioteche, una grande sala per cenare insieme, terrazze ricche di verde (www.easternvillage.org). Dall’altra parte del mondo, a Hamilton Hill, c’è la Pinakarri Community, il primo co-housing australiano, che punta sulle forme di utilizzo dell’energia solare passiva, sullo sviluppo di coltivazioni in permacultura, sul compostaggio dei rifiuti, sull’utilizzo di energie rinnovabili: www.pinakarri.org.au



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