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Opinioni

La bugia per la nobile causa

Gli agenti condannati per falso dopo il G8 di Genova sono tornati a scrivere verbali. Dagli Stati Uniti al Regno Unito, la spiegazione è semplice: la ragione per cui mentono è che possono farlo _ _ _
 

Tratto da Altreconomia 149 — Maggio 2013

Conclusi i processi del G8 di Genova, si pone il tema attuale se i reati commessi dai poliziotti in quel contesto siano la spia di una pratica deteriore che alligna ordinariamente nei corpi di polizia. Non si parla qui delle violenze, ma della fabbricazione delle prove, delle false dichiarazioni e dei falsi verbali.  Sono proprio i reati di falso gli unici a non essere caduti in prescrizione troppo presto, come dimostra il processo per i fatti della scuola Diaz. Le pene stabilite dalla legge per i reati di falso in atti pubblici, come i verbali di polizia, sono infatti molto elevate. La falsificazione di tali atti, che assolvono un’importante funzione di prova, tanto che non possono essere smentiti se non da una dichiarazione giudiziale, è infatti ritenuta un comportamento grave. I giudici e la collettività devono potersi fidare di questi atti e di coloro che li sottoscrivono e li confermano. È naturale che nessuno, se non ha serio motivo, ponga in dubbio ciò che è così rappresentato; d’altro lato è difficile concretamente smentire ciò che il poliziotto scrive o dice. È un caso in cui la parola dell’uno contro l’altro non ha lo stesso peso. Ma quanto o quanto spesso i poliziotti abusano del potere delle loro parole? È giusto che ci si debba fidare di più della loro testimonianza? Di recente, il New York Times ha pubblicato un articolo dal titolo “perché la polizia mente sotto giuramento”, che non è provocatorio solo se si considera l’implicazione che il testo conferma, cioè che questo è un fenomeno piuttosto comune. L’allarmata denuncia non viene da detrattori della polizia, ma anche da suoi appartenenti, come l’ex capo della polizia di Los Angeles Peter Keane, che descrive una cultura della polizia per cui il mentire è la norma, specialmente nelle perquisizioni alla ricerca di stupefacenti o nelle operazioni degli agenti sotto copertura. Ma anche in casi minori si ricorre alla menzogna. Il procuratore distrettuale del Bronx è addirittura giunto alla decisione di non incriminare le persone fermate per l’occupazione abusiva di case popolari a meno che i suoi sostituti non sentano prima il poliziotto per assicurarsi della legalità dell’arresto. Il procuratore che sovrintendeva i casi pronti per il rinvio a giudizio ha messo nero su bianco in una lettera che era diventato evidente che la polizia arrestava anche quando c’erano prove dell’innocenza; gli agenti redigevano falsi verbali e poi testimoniavano il falso in giudizio.

L’analisi di Michelle Alexander, autrice dell’articolo, attivista dei diritti civili e docente universitario, evidenzia che la principale ragione per cui il poliziotto mente è che può farlo. Il sistema gli fornisce incentivi, da un lato pretendendo spasmodicamente risultati anche in termini quantitativi e statistici, d’altra parte perché c’è condiscendenza e tolleranza, anche da parte dei giudici; al massimo si perviene all’assoluzione dell’accusato, ma l’agente è libero di continuare il suo lavoro come se niente fosse. Non solo, vittime di questi abusi sono gli emarginati, chi è già bollato come criminale, i deboli o i nemici invisi del momento. Queste persone non possono sfidare i poliziotti, come fanno gli avvocati dei colletti bianchi. C’è anche una concezione più sottile e pericolosa e cioè che il poliziotto,mentendo, crede di far bene il proprio lavoro, nell’interesse della società, assicurando le condanne. Questa concezione, che l’alto funzionario della polizia inglese, Sir John Woodcock,  già nel 1992 ha efficacemente denominato “corruzione per la nobile causa” ovvero per fini istituzionali è alla base di un fenomeno che si considera endemico in ogni corpo di polizia. Servono controlli interni e anticorpi per riconoscere, monitorare e prevenire quel pericolo di devianza.

Ora chi s’azzarda in Italia a riflettere su questo tema senza scatenare rivolte? Ciò che abbiamo sentito in questi anni è che si è imparato dal G8, tanto che si è istituita una “scuola di formazione per l’ordine pubblico”. Il percorso di “revisione critica” per gli “errori” ammessi dal capo della polizia non comprende certo le innumerevoli falsità degli arresti,  di persone fermate senza motivo, per quello che sono e non per ciò che hanno fatto. Tutti i poliziotti condannati a Genova per falso sono tornati a scrivere verbali come prima. Se poi le falsità, come alla Diaz, sono organizzate per comando dei vertici è difficile prenderne le distanze. Evidentemente anche per i giornalisti italiani che hanno loro stessi propalato un’ulteriore falsità,  facendo credere che per i reati per cui v’è stata la più clamorosa condanna si è chiesto scusa. Si vuole ad ogni costo e con ogni strumentalizzazione dimostrare che si è voltato pagina, ma il messaggio è diretto ad assicurare la fedeltà di una polizia come braccio armato della politica e del governo di turno, non istituzione che risponde ai cittadini. —

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