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La banca svuota la cantina – Ae 72

Mentre l’economia italiana arranca, le banche macinano  utili d’oro. I bilanci 2005 sono da record. Ecco perché, e i rischi L’economia italiana ristagna, le famiglie mostrano un progressivo impoverimento, le imprese perdono terreno sotto la pressione della competizione internazionale. Solo…

Tratto da Altreconomia 72 — Maggio 2006

Mentre l’economia italiana arranca, le banche macinano  utili d’oro. I bilanci 2005 sono da record. Ecco perché, e i rischi

L’economia italiana ristagna, le famiglie mostrano un progressivo impoverimento, le imprese perdono terreno sotto la pressione della competizione internazionale. Solo le banche sembrano godere di ottima salute.

Sulla base dei bilanci dei sei maggiori gruppi bancari italiani, il 2005 è stato un anno record: gli utili netti hanno sfiorato in media il 70 per cento di crescita, gli azionisti hanno staccato maxi dividendi e i top manager monumentali stock option.

In prima fila c’è Capitalia, che dopo anni di magra ha più che triplicato gli utili, superando il miliardo di euro. Seguono Intesa, San Paolo, Monte dei Paschi e Bnl, che lo scorso anno aveva chiuso l’esercizio addirittura in perdita. Chiude la fila Unicredit, con una crescita dell’utile di tutto rispetto (più 20 per cento).

Come spiegare quest’anno d’oro delle banche italiane?

Una parte del risultato è da attribuire al buon andamento della tradizionale area

di business delle banche, vale a dire l’erogazione di prestiti. Nel 2005, nonostante la crescita zero e la crisi di moltissime aziende di fronte alla concorrenza estera, i prestiti alle imprese sono cresciuti di oltre il 6 per cento. Quello che è successo, in alcuni casi, è stato che aziende in difficoltà hanno concordato un allungamento e/o un ampliamento del credito per far fronte alla fase di recessione, riuscendo in questo modo a rimanere sul mercato e a non appesantire ulteriormente la crisi.

Ma la parte del leone nella crescita dei prestiti l’hanno fatta le famiglie.

Visto il momento favorevole dei bassi tassi di interesse, la domanda di mutui per la casa si è impennata, superando i 200 miliardi di euro, mentre è in fortissima ascesa anche il mercato del credito al consumo, che ha superato nel 2005 i 40 miliardi. Il risultato è stata una crescita a due cifre per i prestiti alle famiglie e una valanga di interessi garantiti da ipoteca nelle casse delle banche.

Questi fattori hanno determinato la “tenuta” del margine di interesse -che è il guadagno della banca dato dalla differenza tra gli interessi pagati dai debitori e quelli che la banca a sua volta corrisponde su depositi e obbligazioni- anche in un momento potenzialmente rischioso per le banche, dato l’appiattimento dei tassi di interesse e il ristagno degli investimenti.

A ciò si è aggiunta la “brillante” prestazione delle commissioni legate ai servizi bancari, come la gestione del risparmio e i servizi di incasso e pagamento.

Questo risultato è dovuto in buona parte alla ripresa dei corsi azionari del 2005, che ha riportato la gente a investire in Borsa o in obbligazioni, magari cautelandosi con una gestione patrimoniale “protetta” dai rischi di nuovi flop borsistici.

Non si può però negare l’effetto decisivo degli alti costi delle commissioni bancarie sui servizi, che nel nostro Paese sono tra i più alti d’Europa. L’utilizzo del bancomat, l’acquisto di titoli o di gestioni patrimoniali, il bonifico o la chiusura del conto corrente registrano infatti dei costi che non sembrano risentire in maniera tangibile degli effetti della concorrenza, che invece ha notevolmente migliorato l’offerta di altri servizi bancari, come i mutui.

A questo andamento dei ricavi (inferiore all’8 per cento) si è poi accompagnato un forte contenimento dei costi. Dei sei gruppi bancari che abbiamo preso in considerazione, cinque hanno evidenziato nel 2005 un calo o una sostanziale stabilità dei costi per il personale, nonostante l’effetto del rinnovo del contratto di categoria. Questo non è dovuto in generale a una riduzione del numero di dipendenti, come osservato negli scorsi anni, ma a una diminuzione degli accantonamenti e della componente variabile della retribuzione.

Incassare tanto e spendere poco. Ci troviamo di fronte a un esempio da manuale di buona amministrazione?

In parte sì. C’è però una voce strana, che ispira il senso di piccole quote residuali e che invece, a guardare meglio, è forse il centro di tutta questa storia. Si chiama “rettifiche di valore e accantonamenti”, ma possiamo genericamente chiamarla “svalutazioni” (vedi box a destra). Dal 2004 questa voce, che dà conto del rischio insito nell’attività bancaria e che si era impennata negli anni precedenti, ha preso a ridursi drasticamente, fino quasi a scomparire in alcuni casi.

Questo è giustificato nei bilanci dalla mancanza di fattori di rischio specifici, come Parmalat o Cirio a cui alcuni dei gruppi esaminati erano molto legati, dalla migliore selezione del credito, dalla prospettiva di ripresa economica, ma non tiene conto delle incognite che gravano sull’economia mondiale, dall’andamento del prezzo del greggio all’evoluzione dei conflitti in atto in mezza parte del mondo.

La verità è che il contenuto di queste voci è del tutto discrezionale: spetta a chi compila il bilancio decidere se un credito di 100 euro in “sofferenza” (cioè che corre il rischio di non essere restituito) valga 99 euro o 1. Basta quindi uno sguardo più o meno ottimista sul futuro dei crediti in portafoglio o sull’evoluzione del mercato finanziario per cambiare completamente i risultati della gestione.

A ciò si aggiungono le plusvalenze che alcune banche hanno realizzato per la cessione di partecipazioni o rami d’azienda (come la cessione della partecipazione in Autostrada Brescia-Verona-Vicenza-Padova da parte di Unicredit o quella di Nextra da parte di Intesa Asset Management).

Se si escludono gli effetti di queste componenti, la crescita dell’utile viene molto ridimensionata e in alcuni casi si azzera del tutto. Un tratto di penna e le cantine sono state spalancate, i gioielli di famiglia venduti, però la festa di primavera ha più sapore.

Le banche italiane sono in salute, però l’apparenza è una gran cosa, specialmente in Borsa. E non si può fare a meno di notare che, alla luce delle nuove strategie di aggregazione che si profilano per le banche italiane, l’andamento del titolo in Borsa diventa un fattore chiave della partita finanziaria.

Aumenti vertiginosi degli utili spingono il titolo in alto, rendendo più difficile, o anche solo più onerosa, un’eventuale acquisizione di pacchetti azionari rilevanti. Una tentazione irresistibile per chi ha le chiavi della cantina?

Meglio accantonare

La banche prestano soldi: un’attività rischiosa, cui si aggiunge anche il rischio della compravendita dei titoli. Per questo motivo gli istituti ogni anno “accantonano” parte dei ricavi per coprire perdite future (crediti che non possono più essere recuperati, perdite sulla negoziazione di titoli) o rettificano il valore delle proprie attività sulla base della maggiore o minore capacità di produrre reddito (un credito che passa a sofferenza ha una minore probabilità di essere rimborsato e quindi diminuisce di valore).

Il valore di queste “svalutazioni” era quasi raddoppiato di colpo all’indomani dell’11 settembre 2001, per il timore di crisi finanziarie a livello mondiale, e si è mantenuto su livelli elevati negli anni successivi soprattutto a causa degli scandali legati ai Tango bonds, e alle obbligazioni Cirio, Enron e Parmalat.

Ma il futuro è meno discrezionale

A partire da quest’anno le banche e gli intermediari finanziari dovranno redigere i propri bilanci consolidati applicando gli International Accounting Standards (Ias), principi contabili definiti in sede internazionale. L’esigenza di regole comuni nel definire le poste di bilancio è data dalla sempre maggiore rilevanza di gruppi multinazionali, che in alcuni casi hanno utilizzato differenze nelle definizioni contabili per coprire irregolarità nei bilanci. La novità più importante con l’introduzione degli Ias è la valutazione di attività e passività al valore di mercato e non a quello contabile. Questa modifica dovrebbe restringere l’ambito di discrezionalità dei redattori del bilancio, anche se presumibilmente saranno necessari alcuni anni prima che il nuovo corso della contabilità vada a regime.

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