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Ambiente

Kyoto o non Kyoto

Si terrà a fine Novembre a Durban la diciassettesima conferenza delle parti (COP17) della Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici. Sul tavolo delle trattative un rilancio del Protocollo di Kyoto od il suo affossamento. Ed intanto, sulla pelle del pianeta, si gioca la nuova scacchiera geopolitica internazionale.

Si terrà a fine Novembre a Durban la diciassettesima conferenza delle parti (COP17) della Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici nella quale si tenterà di superare l’ impasse, che da anni ostacola l’assunzione di  impegni necessari per affrontare   l’emergenza climatica, e avviare un processo di transizione rapida verso modelli produttivi e di consumo a basso contenuto di carbonio.  Lo snodo centrale del negoziato è rappresentato dalla necessità di ridurre le emissioni di gas serra per stabilizzare l’aumento della temperatura globale, e la volontà di assumersi l’impegno di stanziare fondi necessari per aiutare i paesi in via di sviluppo o in rapida industrializzazione.  Se fino ad oggi nessun accordo è stato raggiunto lo si deve senz’altro alla mancanza di volontà politica degli Stati Uniti di sostenere un regime vincolante “a la Kyoto” che potesse obbligare Washington a fare la propria parte. D’altra parte però anche l’Unione Europea avrebbe potuto svolgere un ruolo di mediazione tra Stati Uniti e paesi quali India. Brasile, Cina ed invece ha assunto una posizione di basso profilo. Per quanto riguarda il protocollo di Kyoto, e la sua possibile sopravvivenza in un secondo periodo di vigenza, i negoziati sono ancor in alto mare. Negli incontri preparatori  tenutisi a Panama ai primi di ottobre sono emerse varie ipotesi possibilità. Gli Stati Uniti insistono sull’adozione di un sistema  di verifica delle riduzioni di emissioni nel quale i paesi fissano un tetto nazionale di massima, e si impegnano di volta in volta a rivedere lo stato d’attuazione, senza accettare l’eventualità di meccanismi di “enforcement” come quelli propri del protocollo di Kyoto. Questo sistema dovrebbe valere per paesi industrializzati come per quelli in rapida industrializzazione e in via di sviluppo. La  resistenza di questi ultimi riguarda anzitutto il fatto che così facendo si viola il principio delle responsabilità eguali ma differenziate, che invece dovrebbe comportare un massimo impegno per la restituzione del debito climatico ed ecologico da parte dei paesi industrializzati verso il resto del mondo. Eppoi quest’ipotesi segnerebbe la fine del Protocollo di Kyoto, e con esso l’impossibilità di fissare un tetto vincolante per le emissioni di anidride carbonica. Il paradosso è che così  viene meno anche uno dei presupposti necessari per alimentare il mercato globale di permessi di emissione, una delle ipotesi a costo zero prospettate dai paesi industrializzati e dalle imprese per compensare le proprie emissioni con l’acquisto di crediti di carbonio da paesi che emettono di meno. Senza un tetto . si dice – non ci può essere commercio di carbonio.  Altra ipotesi  quella di andare avanti con il protocollo di Kyoto con i paesi intenzionati a sottoscrivere il secondo periodo che inizia nel 2012, Unione Europea in testa, e includere il Protocollo nel quadro di un accordo vincolante più ampio che includa Stati Uniti, paesi del G77 e paesi del gruppo BASIC (Brasile, India, Cina, Sudafrica). La speranza dei negoziatori  è di tenere aperto il canale di discussione ed evitare un ulteriore rottura che rappresenterebbe davvero la fine del modello di negoziato multilaterale. Sul tema delle finanze si gioca l’altra delicata partita. A Copenhagen, si  concordò per un fondo iniziale di aiuto pari a 30 miliardi di dollari che avrebbero dovuto essere innalzati a 100 entro il 2020. Finora pochi di quei fondi sono stati esborsati, spesso riciclati dalla cooperazione allo sviluppo.  Lo snodo delle finanze rappresenta l’altro vero ostacolo verso un possibile accordo di massima a Durban, al punto che un mancato impegno al riguardo rischia di pregiudicare anche la costituzione del Fondo Verde per il Clima, struttura dedicata all ‘esborso dei fondi climatici.  Anzi nell’ultima riunione preparatoria del Fondo Verde Per il Clima gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita hanno puntato i piedi, non accettando un documento bozza nel quale non si chiarisce fino in fondo l’autonomia del Fondo dalla Conferenza delle Parti (cosa richiesta da Washington per aprire uno spazio di agibilità per la gestione da parte della Banca Mondiale), né il ruolo possibile del settore privato.    Probabilmente si proverà a vendere Durban come il vertice sull’adattamento, tema centrale per l’Africa e per le comunità indigene e  contadine la cui sovranità alimentare è oggi minacciata dai cambiamenti climatici. E si rilancerà un accordo sulle foreste, che però rischia di rimanere monco, vista l’assenza di consenso sulle modalità di finanziamento. Insomma, se una cosa Durban ci dirà, ancor una volta, è che non ci troviamo ormai di fronte ad una crisi nel sistema, ma per parafrasare Zizek, ad una crisi del sistema. Lo ribadiranno a gran voce le migliaia di attivisti, e rappresentanti di movimenti che marceranno anche a Durban per chiedere un cambiamento del sistema e non dei cicli climatici . Una strada tutta in salita.

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