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I passi del Kosovo, vent’anni dopo la guerra

Un'immagine di Pristina, capitale del Kosovo © Edin Murati - Unsplash

La disoccupazione giovanile si attesta al 54,9%, gli stipendi medi mensili sono i secondi più bassi della regione europea e metà giovani starebbe prendendo in considerazione di emigrare all’estero nei prossimi tre anni. Ma dei risultati per la società cossovara sono stati raggiunti

La Boulevard Madre Teresa, una delle vie principali nel centro di Pristina, è attraversata da numerosi gruppi di giovani. Scherzano e ridono, qualcuno invece prende tranquillamente l’aperitivo in uno dei locali che costeggiano la strada. Dietro la facciata di una capitale vivace e serena, si nasconde però una realtà più complessa. A vent’anni dal conflitto armato che ha sconvolto questo territorio e a undici dall’indipendenza dalla Serbia (2008), il Kosovo continua ad arrancare: la presenza della criminalità organizzata, che secondo il rapporto sul crimine transfrontaliero di Global Initiative è qui attiva nel traffico di droga, esseri umani e organi; la corruzione nel settore pubblico: il Corruption Perception Index per il 2018 stilato da Transparency International pone il Kosovo al 93° posto assieme alla confinante Macedonia con 37 punti, in una scala da 0 a 100, dove più il numero è basso maggiore si ritiene la presenza della corruzione; infine problematiche di carattere socio-economico.

Tra queste spicca la disoccupazione giovanile che secondo i dati della Banca Mondiale per il 2018 si attesta al 54,9%. Si tratta del tasso più alto tra i Paesi dei Balcani. La percentuale, inoltre, si comprende pienamente considerando anche che la popolazione cossovara stimata sotto i 30 anni rappresenta più della metà della società. La situazione, comunque, non è migliore neppure per chi lavora. Oltre l’elevata disoccupazione generale (del 28%), la tipologia di contratto, le condizioni di lavoro e i bassi salari sono tra le ragioni per le quali i sindacati hanno organizzato proteste e manifestazioni durante l’anno passato e che sono proseguite nei primi mesi del 2019. Stando all’Agenzia di statistica del Kosovo (ASK), gli stipendi medi mensili sono i secondi più bassi di questa regione europea. Peggio fa solo l’Albania. Nel 2018 lo stipendio medio mensile del settore pubblico toccava i 473 euro, mentre quello del privato non raggiungeva i 350 euro. Una differenza che si è acuita dal 2012: la crescita non è stata parallela, nel settore pubblico l’aumento è quantificabile in 120 euro, nel privato di soli 15 euro. A questo si deve aggiungere che solo l’8% dei lavoratori presenta un contratto indeterminato perciò con maggiori garanzie, al contrario l’80% viene impiegato con contratti temporanei, dato che si pone in controtendenza rispetto agli Stati confinanti: per esempio, in Macedonia si aggira sul 20%.

È attraverso questi elementi che si può comprendere il malessere che, se nel 2019 sembra taciuto, nel 2016 portò a una serie di manifestazioni poi sfociate in scontri violenti che misero a ferro e fuoco il centro cittadino della capitale. Negli ultimi due anni il clima sembra essere meno teso, ciononostante momenti di contrasti non sono mancati. “Siamo stufi della classe dirigente attuale, dall’indipendenza ben poco è migliorato”, spiega Zgjim riferendosi soprattutto ai due principali soggetti politici del Paese, l’ex primo ministro Ramush Haradinaj, dimissionario a luglio, e il presidente della Repubblica Hashim Thaci. “Ho 29 anni, a quest’ora speravo di aver messo su famiglia ma considerata la mia situazione economica sarei un incosciente. Vivo alla giornata alla ricerca di un qualunque impiego, quando capita però non dura più di una settimana. In un Paese democratico quale è il nostro non mi sembra normale”, conclude.

Non tutto può essere guardato in ottica negativa, risultati proficui per la società cossovara sono stati raggiunti ma sono spesso frutto di iniziative di privati o di organizzazioni non governative. Tra queste compare la Kosovar Youth Council (KYC), Ong che ha come target di riferimento gli under-23. “L’organizzazione fu fondata nel 1999 in Albania con lo scopo di aiutare i bambini e i ragazzi che scappavano con le famiglie dalle loro case, dove era in corso un violento conflitto tra l’esercito serbo e i guerriglieri dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK)”, spiega Agnesa Qerimi, direttrice dal 2018. “Oggi concentriamo le nostre energie in progetti che coinvolgano bambini e adolescenti, perché riteniamo doveroso guardare ai giovani come il futuro del Kosovo. Abbiamo ottenuto buoni risultati soprattutto attraverso percorsi artistici e sportivi, collaborando con la Uefa Foundation for Children, Unicef Kosovo Programme e Save The Children”, continua la direttrice. “Non è semplice, in particolare nelle aree rurali del Paese dove tutto ciò che proviene dall’esterno è visto con sospetto dai locali. Nell’agenda dell’organizzazione, però, c’è la volontà di portare maggiori opportunità in queste zone”. Da poco l’associazione ha iniziato a occuparsi anche di temi religiosi, “il timore è che i ragazzi emarginati per ragioni economiche, etniche o religiose, possano essere sì vittime della criminalità organizzata ma anche di gruppi terroristici islamici”, racconta Agnesa.

Proprio il Kosovo viene considerato uno dei serbatoi principali nel reclutamento di miliziani, da qui sono partiti oltre 400 foreign figthers, tra i quali il “macellaio dei Balcani”. “Non investire sui giovani, come sta facendo la classe politica attuale, ma anche quelle precedenti, significa perderli”, conclude Agnesa toccando il tema dell’emigrazione. Dal 2008 al 2018, secondo i dati forniti da Eurostat, sono circa 344mila persone -di cui 141mila “illegalmente”- ad aver lasciato il Paese, la cui popolazione non raggiunge i due milioni di abitanti e dove anche le nascite sono diminuite. Ma sono ancora molti a voler andarsene. Basandosi sul rapporto “The great excape”, la grande fuga, a cura dell’European Policy Institute of Kosovo (EPIK), il 58% dei giovani cossovari starebbe prendendo in considerazione di emigrare all’estero nei prossimi tre anni e la maggioranza per ragioni puramente economiche. “Tanti cercano fortuna all’estero e li capisco, anche io vedo il mio futuro lontano da questa terra, o quantomeno per proseguire gli studi universitari, al tempo stesso però non è semplice uscire dal Kosovo”, racconta Amina Kaja, studentessa, poeta e attivista di 17 anni.

La mancata liberalizzazione dei visti da parte dell’Unione europea pone il piccolo Stato in una posizione di sostanziale “isolamento”, tanto che nel Global Passport Index 2019, in cui sono analizzati tutti i passaporti per capire le possibilità di viaggio e la facilità di ottenere il visto, quest’ultimo si posiziona al 181° posto tra Libano e Bangladesh. “Tuttavia fino a quando sarò qui voglio dare il mio contributo per cambiare il Paese, sarà arduo e richiederà impegno da parte di ognuno di noi ma abbiamo l’obbligo di provarci”. Lei, a modo suo, lo fa attraverso l’uso della parola scrivendo poesie e intervenendo pubblicamente, come accaduto in Parlamento nazionale durante la sessione straordinaria organizzata dal Caucus delle donne: “La poesia, ma direi l’arte in generale, può essere un ottimo strumento per sensibilizzare la società più di articoli e inchieste giornalistiche, coinvolge emotivamente il lettore anche quando si affrontano temi di cui si parla poco. Penso alla violenza sulle donne e all’ambiente”. “Sento particolarmente quest’ultimo argomento, spesso nelle composizioni ne parlo, del resto credo sia fondamentale prendersi cura della natura. Dovremmo rivedere il nostro modo di vivere e manifestare affinché i governi cambino le loro politiche energetiche e industriali”, spiega Amina. Uno dei problemi maggiori, allarmante soprattutto a Pristina, è l’inquinamento dell’aria causato perlopiù dalle due centrali elettriche presenti a Obiliq, città distante tre chilometri dalla capitale, e dalle emissioni delle automobili circolanti: secondo il Gap Institute, una società indipendente cossovara attiva dal 2007, si tratterebbe rispettivamente di 6,4 e 1,5 milioni di tonnellate di CO2. “Il governo non è ancora intervenuto, non c’è un piano alternativo”, racconta sempre la studentessa, “al tempo stesso vedo che molti miei coetanei ne discutono per far sentire la propria e non essere più soggetti passivi. Questo fa ben sperare”.

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