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Korogocho non esiste – Ae 79

Città senza cittadini, gli slum sono ignorati dallo Stato. In Kenya come altrove. Reportage da alcune tra le più grandi baraccopoli d’Africa Korogocho vuol dire confusione, in lingua kikuyo. È il nome di uno degli slum di Nairobi, a 11…

Tratto da Altreconomia 79 — Gennaio 2007

Città senza cittadini, gli slum sono ignorati dallo Stato. In Kenya come altrove. Reportage da alcune tra le più grandi baraccopoli d’Africa


Korogocho vuol dire confusione, in lingua kikuyo. È il nome di uno degli slum di Nairobi, a 11 chilometri a Est dal centro dei palazzi di governo e dei grattacieli delle banche. La zona è chiusa dal fiume che dà il nome alla capitale del Kenya e dalla discarica di Mukuru, dove arrivano tutti i rifiuti della città. Qui, in questa baraccopoli, padre Alex Zanotelli venne a vivere nel 1990, portando così lo scandalo di Korogocho al cospetto del mondo ricco.

Korogocho è la più povera baraccopoli di Nairobi. Una famiglia di quattro persone vive con poco meno di 70 euro al mese (6.100 scellini), l’85% delle persone è sotto la soglia di povertà assoluta. Si stima che l’Hiv (“quella malattia là”) colpisca tra il 50 e il 70% della gente. C’è abuso di alcool: qui si autoproduce e si rivende il changaa, distillato di canna o mais, a volte “tagliato” con cherosene. C’è droga di ogni tipo e a buon mercato, dato che il Kenya è il transito per l’Europa, e moltissimi tossicodipendenti. Tra di loro tanti bambini di strada, che qui sono migliaia, attaccati alle loro boccette di colla. Metà delle famiglie sono in realtà madri con figli, senza padri. È facilissimo trovare armi, anche in affitto: arrivano dalla Somalia. Ci sono violenze e rapine e la polizia non c’è.

Korogocho è affollata: 100, forse 150 mila persone vivono stipate e compresse in un fazzoletto di terra. La città di Perugia chiusa in un chilometro e mezzo, tutta al piano terra.

Le baracche censite sono 11 mila e 600. Ogni casa ha cinque, sei stanze. In ogni stanza vive un’intera famiglia, un lenzuolo divide la zona giorno da quella notte. Ogni residente dispone di 10, forse 15 metri quadri per lavorare, muoversi, dormire.

In una parola: per vivere.

Korogocho è piccola. Non ci vuole molto per percorrerla tutta a piedi. Passeggiamo lungo strade fangose in questo ammasso di baracche con Fabrizio Floris, economista e ricercatore all’università di Torino. Studia Korogocho e gli slum da quando qui preparò la sua tesi di laurea, nel 1996. Qui come in tutti gli slum non c’è proprietà privata della terra, spiega: il terreno appartiene allo Stato. Chi ha realizzato le baracche ha un permesso di occupazione temporanea del suolo, che è revocabile in qualsiasi momento. Nel 2004 il governo mise in piedi una campagna di demolizione delle baracche, che in città avrebbe causato almeno 230 mila sfollati. Grazie anche alla campagna “W Nairobi W” il piano non andò in porto.

“L’80% delle case appartiene a un’esigua minoranza, e la maggior parte dei proprietari non vive nemmeno nello slum” dice Fabrizio. Quattro quinti delle famiglie sono in affitto, a prezzi che a seconda della dimensione e della posizione della baracca possono arrivare a 2000 scellini.

L’aria è piena dell’odore delle fogne a cielo aperto, e dell’immondizia lasciata per le strade perché nessun servizio pubblico verrà mai a raccoglierla. Negli slum non ci sono servizi pubblici. L’elettricità è un privilegio per pochi, l’acqua viene venduta da privati e a volte costa più che in città, la sicurezza un sogno. Korogocho per lo Stato non esiste, e infatti non è segnata nemmeno sulle cartine. Una città clandestina all’interno di quella ufficiale.

Gran parte degli abitanti di questo slum sono sfollati, vittime di precedenti sfratti in altre zone di Nairobi. Altri sono rifugiati illegali e senza diritti, giunti qui anche decine di anni fa.

Molti provengono da zone rurali: gli scarsi investimenti del governo sull’agricoltura e la mancanza di infrastrutture spingono la gente verso i centri urbani. E lo slum assume il ruolo di mediazione tra campagna e città. Chi arriva da fuori e non trova lavoro in città finisce a Korogocho.

Le baraccopoli sono però anche il risultato della totale assenza di politiche di edilizia popolare delle città. La casa è il problema di Nairobi e gli slum sono la soluzione: una crescita urbana senza città. “Una soluzione che sta bene a chi governa, perché il sistema delle concessioni ha creato una gestione clientelare. Che va tutta a favore di politici e funzionari che possono contare sul business degli affitti, innanzitutto, e sulla grande facilità nello strumentalizzare i poveri a proprio vantaggio: come bacino di voti o di mobilitazione di piazza”. Korogocho è una miniera d’oro.

In tutta questa miseria però pulsa la vita. Ci sono decine di attività economiche: negozi e piccole rivendite di ogni tipo, artigiani di qualsiasi genere, baracche che si improvvisano ristoranti, alberchi, cinema. Il 92% della popolazione ha un impiego informale. “C’è capacità di creare reddito, e perfino di risparmio” spiega Fabrizio. “Solo che ricchezza e risparmi non puoi investirli qui, per migliorare la situazione. Non puoi mettere in pratica le tue capacità. Perché la terra appartiene allo Stato. Chi ha successo, semplicemente, se ne va. E Korogocho rimane sempre uguale a se stessa. Le iniziative economiche che si vedono qui ci dicono che la povertà non si spiega solo con fattori economici, ma soprattutto politici. Servono scelte politiche precise, come concedere la terra agli affittuari”.

La discarica di Mukuru è l’unica della città ed è più grande di Korogocho. Ci buttano di tutto e l’autocombustione dei rifiuti genera fumi tossici che il vento porta nello slum. La raccolta dei rifiuti recuperabili è una risorsa preziosa per i numerosi “cercatori” e costituisce oggetto di grandi interessi economici del deputato di turno e di bande criminali che sfruttano la debolezza dei disperati. Inutile chiedere che venga spostata.

“Korogocho è una città senza cittadini” dice Fabrizio. “Ci sono tutte le dinamiche urbane, senza però che chi vi abita abbia diritti di cittadinanza, e quindi servizi, tutele e sicurezza”.

Insieme a padre Paolo e ad alcuni volontari, padre Daniele ha ereditato il lavoro di Zanotelli e con esso la baracca nel cuore dello slum. È giovane, risoluto, pragmatico: “Il nome Korogocho è sempre stato legato a una dimensione negativa, che indubbiamente esiste. Tuttavia, in questa situazione di profondo disagio si deve trovare il modo di rendere vivibile lo slum. In questa ‘confusione’ c’è un ordine, una dimensione di grande positività. Pur essendo povera, non tutta la gente è disperata. C’è una forte ricerca di vita e di uscita dalla miseria. L’informalità del lavoro è noemale. In generale la gente non è passiva. Il problema è dare loro almeno qualche sicurezza.

E l’opportunità di migliorare le proprie vite”.

Korogocho non è l’unica baraccopoli di Nairobi. Dall’altra parte della città, a Sud Ovest, c’è Kibera. È lo slum più grande dell’Africa sub-sahariana. È a due passi dalla città, vicino all’area industriale. La ferrovia la taglia da Est a Ovest, i binari

a un passo dalle baracche. Cani, pecore nell’immondizia e un odore acre nell’aria sono il suo benvenuto.

Bony ha 24 anni. È nato in un villaggio fuori Nairobi, è finito in città, è stato un bambino di strada. Oggi si occupa di bambini di strada, e cerca per loro un futuro nel centro Ndugo Mdogo, “piccolo fratello”,un progetto della comunità Koinonia di Nairobi, nata nel 1988 grazie a padre Renato Kizito Sesana. Attraversiamo la baraccopoli lungo la ferrovia che taglia la parte “commerciale” dello slum. Il treno che arriva all’improvviso sfiora le baracche nell’indifferenza di tutti. Un muro separa lo slum da un campo da golf, verde e lussurreggiante. Raggiungiamo il Kenyatta Market, fuori Kibera. Attorno a un carrello sono riuniti una decina di ragazzi, non più bambini. Alcuni giocano a carte. La maggior parte di loro sniffa benzina di aerei imbevuta in un pezzo di stoffa, è la loro droga.

Li distrae dalla loro condizione, fa dimenticare la fame, li spegne lentamente. Sono malconci e sporchi. Bony è qui per loro, per quello che si chiama Market Street Youth Project. Parliamo attorno a un carretto. Accanto a noi un cumulo di rifiuti sul quale qualcuno ha acceso un fuoco. La puzza, la fogna, le mosche all’inizio sono quasi insopportabili. Un paio di loro si contendono il mio taccuino per scriverci i loro nomi. Ma la benzina li annebbia. Sulla carta rimangono solo macchie.

Nairobi, la città di lamiera

Nairobi dovrebbe essere la “la verde città delle fresche acque”, ma vista dall’alto l’aspetto tende più verso il colore lamiera arrugginita. Secondo le Nazioni Unite (l’agenzia UnHabitat ha sede proprio nella capitale del Kenya) qui ci sono 199 baraccopoli. L’incremento di popolazione degli slum è stata esponenziale negli ultimi 20 anni: Nairobi cresce del 7% l’anno, il doppio della media nazionale. Oggi su 4 milioni di abitanti, 2,5 vivono negli slum, ma non occupano che il 10% del territorio urbano. La baraccopoli più grande è Kibera, che coi suoi 700 mila abitanti è la più popolosa di tutta l’Africa sub sahariana. In questa speciale classifica seguono Mathare (300 mila), Korogocho (150 mila) e Kangemi (100 mila). La città rappresenta comunque il motore economico del Paese: in Kenya la popolazione urbana è il 23% del totale, ma produce il 70% della ricchezza.





Baracche e burattini

La missione dei padri comboniani a Korogocho prende vita nel 1983. La comunità che si riunisce attorno alla chiesa di St. John oggi segue una quindicina di progetti dedicati ai bambini di strada, all’assistenza ai malati, all’alcoolismo e alla formazione professionale: www.korogocho.org. Fabrizio Floris, l’economista che intervistiamo in queste pagine ha insegnato antropologia economica a Torino e sociologia a Milano e Bethlehem. Ha condotto ricerche a Korogocho e nel campo profughi di Kakuma (sempre in Kenya).

Il suo libro “Baracche e burattini? La città-slum di Korogocho in Kenya” (2003) è pubblicato da L’Harmattan Italia di Torino (a lato la copertina della traduzione inglese, pubblicato da Paulines Publications Africa in occasione del World Social Forum. Il suo ultimo libro è “Eccessi di città. Baraccopoli, campi profughi e periferie psichedeliche”, ancora Paulines.




L’Africa franca

Emily sa dove finiscono i jeans. Vanno da Wal Mart: lo ha capito guardando le etichette. E sa anche perché Wal Mart può dire “Always low prices”: prezzi bassi sempre.

“Devo cucire 70 paia di tasche ogni ora. Se non mantengo il ritmo per nove ore, rimango a lavorare fino a che non ho raggiunto il target. Le ore in più non sono calcolate come straordinari”. Emily ha trent’anni e lavora nell’Epz Rafiki, a Ruaraka, fuori Nairobi. La sigla Epz sta per “Export processing zones”: zone industriali dotate di speciali incentivi legislativi, nate per attrarre investitori stranieri, nelle quali materiali importati vengono in qualche modo “processati” per essere poi riesportati. Siamo abituati a pensare agli sweatshops asiatici o alle maquiladoras centramericane. Invece posti così esistono anche in Africa: stesse dinamiche, stesso sfruttamento.

In Kenya questi “porti franchi” sono stati istituiti nel 1990. Oggi ce ne sono 43, ma solo 28 sono operanti per un totale di 68 aziende, un giro di affari di 250 milioni di euro e quasi 40 mila impiegati, il 60% dei quali sono donne.

Emily ha trent’anni. Per 6 mesi ha lavorato per la cingalese Upan Wasana senza contratto. Solo dopo gliene hanno fatto firmare uno, senza però farglielo leggere prima. Il suo stipendio mensile è di 6.200 scellini (meno di 70 euro) per lavorare un minimo di 45 ore la settimana. Vive vicino alla fabbrica con sua figlia che ha 3 anni, e paga ogni mese 1.800 scellini di affitto.

Ogni giorno sta alla cucitrice per attaccare tasche a jeans e pantaloni che saranno venduti dai supermercati Wal Mart negli Stati Uniti. Upan produce anche magliette per la Consolidated Apparel Group, sempre statunitense. Fanno tutto, dal taglio all’etichettatura, con stoffa che arriva dalla Cina. Ci lavorano quasi 2 mila persone. “C’è molta polvere e poca luce, e non abbiamo nessun tipo di protezione, tipo maschere o guanti. Spesso non facciamo pause ed è raro finire all’orario prestabilito. Spesso stacchiamo alle 5 del pomeriggio, ricominciamo alle 7 e andiamo avanti tutta la notte.

I supervisori chiedono ‘favori’ sessuali se hai bisogno di qualcosa, e un rifiuto può equivalere al licenziamento. Non è raro che rappresentanti di Wal Mart visitino l’azienda, anzi vengono anche ogni due o tre settimane. Quando arrivano ci viene detto come rispondere alle loro domande e di indossare le protezioni”. Nell’Epz di Ruaraka le aziende sono 4: oltre a Upan, la Apex Apparels (per metà indiana e per metà bengalese), Indigo e United Aryan (indiane) per un totale di quasi 9 mila lavoratori. Solo il 13% delle aziende negli Epz appartiene a kenyani, e il 29% sono joint venture.

Il 57% è in mano ad aziende provenienti soprattutto dallo Sri Lanka, India, Taiwan, ma anche Bahrain, Qatar, Usa, Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Cina, Sud Africa e Tanzania.

La maggior parte produce abbigliamento, e il 74% di quel che esportano va negli Stati Uniti, il 12% in Europa.

Oltre Wal Mart, altri marchi che si riforniscono qui sono Levi’s, Dicke’s, Steven Balley, J.V., 9&Company, Erika, Regatta.

Patricia ha 34 anni e 3 figli, Miriam 23 anni, un figlio e nessun marito, Pamela 38 anni e 4 figli. Raccontano di settimane lavorative di sei giorni, 3 euro al giorno di paga, molestie e abusi sessuali, spazi angusti e diritti sindacali negati.

Non fanno mai ferie: semplicemente non lavorano quando finiscono gli ordini, in attesa di nuove commesse dall’estero.

Le incontriamo insieme a Emily a un workshop del Kenya Human Rights Commission, che nel 2004 ha redatto un rapporto sulle condizioni di lavoro negli Epz, risultato di oltre 200 interviste ad altrettante lavoratrici.

Da allora quelli di Human Rights Commission sono impegnati nella tutela dei loro diritti (www.khrc.or.ke).

I problemi degli Epz non riguardano però solo i lavoratori.

Oggi anche il governo inizia ad avere dubbi sul loro valore economico. Nel settembre 2006 il segretario generale del governo per il Commercio e l’industria, David Nalo, ha affermato che sebbene abbiano portato guadagni rispetto agli scambi con l’estero e creato posti di lavoro, gli Epz hanno fallito nel contribuire all’industrializzazione del Paese. Non solo: “Il pacchetto di incentivi dato alle compagnie incoraggia l’esportazione ma non supporta l’industria domestica”.

I benefici fiscali dati a queste aziende comprendono una forte detassazione di almeno 10 anni sulle vendite (e sui dividendi dei proprietari), esenzione totale dell’Iva e dazi di importazione vantaggiosi. Le aziende arrivano qui perché i costi sono inferiori che altrove, ma non creano strutture permanenti. Quando i vantaggi finiscono, semplicemente, chiudono.

E portano via le macchine.

Crescono le “zone speciali” nel mondo

In Kenya esistono 43 Export Processing Zones (Epz) di cui solo 28 però sono operativi. Secondo l’Autorità kenyana per gli Epz (www.epzakenya.com) le aziende operanti nel 2005 erano 68. Il valore delle vendite è di 23,7 miliardi di scellini (oltre 250 milioni di euro), quello delle esportazioni 20 miliardi. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) che per il settore ha un proprio osservatorio, negli ultimi 30 anni il numero di Epz nel mondo è cresciuto esponenzialmente. Nel 1975 gli Epz erano 79 in 25 Paesi,

nel 2002 sono diventati 3000 in 116 Stati. Non si tratta solo di industrie di abbigliamento, ma anche di elettronica, alimentari, servizi (compresi ad esempio i call center). L’Ilo stima che nel mondo almeno 43 milioni di persone lavorino in un Epz, 30 milioni solo in Cina. http://www.ilo.org/public/english/dialogue/sector/themes/epz.htm




I conti del forum

Il Forum sociale mondiale, che dal 20 al 25 gennaio arriva a Nairobi per la settima edizione, cresce e si fa i conti in tasca. Tra il 2001 ed il 2005, tra il primo e l’ultima edizione di Porto Alegre (la città brasiliana dove il Forum è nato), i costi sono lievitati come il numero dei partecipanti. L’esperienza rischia di diventare economicamente insostenibile e di scontare un deficit di democrazia.

Se il primo Forum del 2001 era costato poco meno di 350 mila dollari (con almeno 20 mila attivisti), nel 2005 la macchina del World Social Forum (Wsf) -organizzazione e allestimento degli spazi, costi di traduzione, ecc.- si è mossa con 8 milioni 313 mila dollari. I finanziamenti raccolti dal Comitato organizzatore brasiliano sono stati di 6.709.358 dollari: un terzo proviene da organizzazioni non governative e fondazioni (c’è anche la Fondazione Ford), un altro terzo da fonti governative (il governo locale e quello federale) e un quarto da imprese “miste” (pubblico-privato: tra le altre, la brasiliana Petrobras). Solo il 10% arriva dalle sottoscrizioni dei partecipanti.. Alla fine è rimasto un buco di un milione e mezzo di dollari e c’è voluto un anno per ripianarlo (parzialmente): fino a giugno 2006 è stata attiva una “campagna di donazioni per il debito del Wsf”, cui hanno contribuito privati, fondazioni e organizzazioni non governative. Nonostante la campagna i conti sono rimasti in rosso per oltre 250mila dollari.



Ma non è solo una questione di sostenibilità economica: dietro il deficit del Wsf c’è l’assenza di una strategia di raccolta fondi per l’evento e tutta la macchina organizzativa che precede il Forum; questo può trasformarsi in un tallone d’Achille, come spiega il rapporto interno intitolato “Strategia finanziaria del Forum sociale mondiale”, presentato nell’ottobre del 2006 a Parma.

C’è il rischio, cioè, che alle riunioni del Consiglio internazionale (Ci) del Forum, l’organo che decide l’agenda politica annuale del movimento e sceglie i “temi” del Wsf (s’incontra in media un paio di volte l’anno), possano partecipare solo i delegati delle organizzazioni del Nord, quelle in grado di pagare di tasca propria. Secondo lo studio, una riunione costa in media 2.000 euro per ogni delegato, tra viaggio, alloggio e spese di traduzione: troppi per organizzazioni asiatiche e africane (che sono molte tra le 146 realtà del Consiglio internazionale).

Il “processo” costa almeno 500 mila euro l’anno (700 mila nel caso di Porto Alegre 2005).

 

Così si cerca di correre ai ripari: il rapporto redatto su richiesta della Commissione risorse del Wsf (che fa parte del Ci), è il primo passo verso la definizione di una strategia di raccolta fondi; “per capire come farci carico di costi crescenti”, spiega ad Altreconomia Moema Miranda dell’Istituto brasiliano di analisi sociale ed economica (Ibase), membro del Ci dal 2001. “L’obiettivo è quello

di garantire l’autonomia del Forum e la sostenibilità del processo del Wsf, non solo dell’evento”.

Tra maggio e settembre 2006 tre consulenti hanno intervistato un centinaio di persone di 27 Paesi, tutte in qualche modo legate al processo del Forum sociale mondiale.

La riflessione sulla raccolta fondi -emerge dal rapporto- dovrebbe avanzare di pari passo con quella sulla capacità di comunicare all’esterno i risultati del Wsf: verso i donatori, che potrebbero stancarsi e che, soprattutto, sono abituati ad esigere informazioni per essere sicuri di aver ben speso il proprio denaro, e verso il movimento, perché il Wsf non diventi solo un appuntamento “abituale”.



Anche il numero crescente di eventi (i Forum regionali e tematici accanto al Wsf, vedi tabella) è visto come un rischio: i canali di finanziamento -che in assenza di una strategia ad hoc si basano su relazioni personali e istituzionali, e sulla fiducia- possono prosciugarsi rapidamente.

Il Forum è “un evento che cresce sempre più avendo a disposizione per lo più fondi esterni e di pochissime fonti”: Novib, l’Oxfam olandese, ha contribuito tra il 2001 e il 2005 con quasi 2 milioni di dollari, pari al 13% dei soldi spesi per organizzare i cinque Wsf. Dall’analisi, l’azione: una strategia di raccolta fondi non può passare per le tasche dei partecipanti (non di tutti). A Porto Alegre 2005 meno del 10% dei fondi provenivano dalle sottoscrizioni individuali: 155 mila persone hanno pagato la tassa d’iscrizione di 5 dollari, che sono comunque pochi per ripagare i costi organizzativi, calcolati in oltre cinquanta dollari a testa, ma troppi per chi, in Africa e tra coloro che vivono con meno di due dollari al giorno, vorrebbe salire sul “carrozzone” altermondialista (per un africano registrarsi a Nairobi costa 7 dollari). Soldi che, in ogni caso, arrivano solo nel corso dell’evento e non garantirebbero la democrazia del processo.



Appuntamento mondiale a nairobi

L’appuntamento col Forum sociale mondiale è dal 20 al 25 gennaio al Moi International Sports Centre di Kasarani, a 10 km dalla city di Nairobi. Le cerimonie

di apertura e chiusura si terranno invece nel Parco Uhuru, nel centro della città. Nairobi 2007 è il primo Forum mondiale in Africa. Registrarsi costa 7 dollari per gli africani,

28 per chi proviene “dagli altri Sud del mondo” e 112 per un occidentale.

Tra i temi in agenda al Wsf 2007 (www.wsf2007.org) gli Economic partnership agreement (Epas) tra l’Unione Europea ed i Paesi africani, che dovrebbero entrare in vigore dal 1° gennaio 2008, e la politica migratoria dell’Ue. Il 25 gennaio è in programma una maratona attraverso gli slum, organizzata dal Kutoka Network, una rete di parrocchie cattoliche attive nelle baraccopoli di Nairobi (www.kutokanet.org).



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