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Cultura e scienza / Intervista

Lorenza Jachia. Uno standard fatto bene

Per poter aver accesso ai mercati mondiali, produttori ed esportatori devono rispettare regole e norme riconosciute. Intervista all’esperta delle Nazioni Unite

Tratto da Altreconomia 207 — Settembre 2018
Lorenza Jachia lavora all’Onu da oltre 20 anni. Economista, è specializzata in commercio internazionale © Nazioni Unite

“Detta in maniera semplice: gli standard sono documenti che ci dicono come fare bene le cose”. Lorenza Jachia lavora all’Onu da oltre 20 anni. Di formazione economista, specializzata in commercio internazionale, è esperta nel tema della normazione e dei regolamenti tecnici che gli esportatori devono rispettare per poter aver accesso ai mercati mondiali. Recentemente, ha lanciato un’iniziativa sulla “Normazione per lo sviluppo sostenibile” (Standards for the SDGs) e sul ruolo delle donne nella normazione (Gender-Responsive Standards). “Se invece vogliamo essere più precisi, utilizziamo le parole dell’Organizzazione mondiale del commercio, che definisce gli standard come specifiche tecniche adottate in modo consensuale e approvate da un organismo riconosciuto, le quali dettano regole o linee guida valide in modo ripetuto e continuo. Per definizione gli standard sono strumenti volontari”.

In che relazione sono questi strumenti con la normativa tecnica che è vincolante?
LJ I regolamenti tecnici obbligatori fanno riferimento a norme nazionali, regionali o internazionali. Per fare un esempio: nel quadro normativo dell’Unione europea, per comprovare di aver rispettato più “requisiti essenziali” di una direttiva, è in molti casi sufficiente che il produttore possa dimostrare di aver adempiuto a specifiche “norme armonizzate” che sono sviluppate dagli enti di normazione europea. Operando in questo modo, l’Unione rispetta il carattere volontario degli standard, ma allo stesso tempo ne fa uso in ambito legislativo. Questo facilita non solo l’adempimento da parte delle imprese, ma anche lo stesso iter legislativo. Le norme poi hanno una funzione molto più ampia e sono spesso più stringenti dei regolamenti tecnici obbligatori .

Chi regola il sistema? Come vengono sviluppati gli “standard” internazionali?
LJ Si tratta di organismi in cui gli esperti lavorano a titolo volontario. Possono essere internazionali, come nel caso di ISO (International organization for standardization) che è una “confederazione” di organismi di normazione nazionali membri: per l’Italia è UNI (Ente italiano di normazione, uni.com). Le norme ISO vengono sviluppate da comitati tecnici che hanno un mandato circoscritto a un settore (l’efficienza energetica, il turismo, o i giocattoli). Una volta completata questa tappa a livello settoriale, lo standard deve poi essere approvato da una maggioranza qualificata di membri nazionali. Potrà poi essere adottato dagli organismi di normazione nazionale ed eventualmente tradotto nelle lingue dei Paesi che decidono di utilizzarlo.

A fianco di questo modello, probabilmente il più conosciuto, ne esistono anche altri che non hanno questa struttura basata su una membership nazionale. Per esempio i cosiddetti “consorzi” sono organismi di normazione i cui membri sono invece singole imprese, o associazioni, o organizzazioni di settore, non necessariamente uno per Paese. Indipendentemente da come sono sviluppati, gli standard possono dividersi in tre grandi classi: quelli che riguardano prodotti, servizi e processi. Nel primo caso indicano quali sono le caratteristiche che un prodotto deve avere in termini di sicurezza o compatibilità con altri prodotti. Nel secondo caso ci sono standard per il servizio alberghiero, o bancario. Il terzo ambito -lo standard ISO9000, ad esempio- indica come gestire al meglio, in termini di efficacia ed efficienza, un processo produttivo, la fornitura di un servizio, in modo che si ripeta sempre con uguale, e riconosciuta, qualità. Abbiamo a che fare con standard in ogni momento della nostra vita: dal dentifricio con cui ci laviamo i denti fino all’utilizzo della carta di credito. A maggior ragione questo vale per le imprese, i cui prodotti devono poter essere utilizzabili in tutto il mondo. L’Ue cerca costantemente di armonizzare tutti gli standard riguardanti i Paesi membri, e in effetti il loro numero si è notevolmente ridotto, come indica una ricerca di BSI, ente di normazione inglese, secondo cui il numero degli standard si è ridotto da circa 160mila “nazionali” a “soli” 20mila standard armonizzati oggi nel corso di 30 anni.

Tuttavia ogni giorno nascono nuovi prodotti, servizi e processi, sempre più complessi, e quindi sono necessari nuovi standard. Standard e normazione possono contribuire al perseguimento di uno sviluppo sostenibile?
LJ Nell’Agenda 2030 e negli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu i riferimenti agli standard non sono particolarmente diffusi. Tuttavia è impensabile pensare a una transizione verso la sostenibilità senza l’appoggio degli standard. I quali insistono nelle tre componenti tipiche della sostenibilità: quella ambientale, quella sociale, quella economica. Se anche solo ci riferissimo a quest’ultima, uno studio riferito alla Cina ha dimostrato che l’adozione di standard da sola aumenta direttamente la produttività del 5%. Se guardiamo alla prima delle componenti, basta pensare a ISO14000 (sigla che identifica una serie di standard internazionali relativi alla gestione ambientale delle organizzazioni, ndr) che si occupa di vari campi, dall’etichettatura fino al ciclo di vita di un prodotto, o a MSC per la pesca sostenibile, o FSC per la gestione sostenibile delle foreste.

Che si occupa di monitorare e ridurre il divario salariale tra uomini e donne.
LJ Le imprese possono catalogare i vari lavori che vengono svolti al loro interno, verificare i salari per ciascun ruolo e a quel punto capire se ci siano differenze -a parità di lavoro- tra le remunerazioni femminili e quelle maschili. In tal caso inizia il processo per eliminare questi divari. Ovviamente è un processo che può essere utilizzato per ogni forma di discriminazione salariale. È stato uno standard volontario in Islanda per cinque anni, con l’attestato di una certificazione per le aziende virtuose, molto efficace in termini di comunicazione per le imprese. Poi il governo islandese lo ha reso obbligatorio per le imprese con più di 12 dipendenti.

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