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Diritti / Attualità

L’Italia non vuol punire la tortura. Il Senato affossa di nuovo la legge

A 15 anni dal G8 di Genova, e dopo la condanna della Corte europea dei diritti umani, il Parlamento non ha approvato il provvedimento che punisce questa fattispecie di reato. È l’ultima occasione per rivedere un testo pieno di lacune. Il 13 ottobre sit-in a Montecitorio per far pressione su Matteo Renzi e Andrea Orlando

Tratto da Altreconomia 185 — Settembre 2016

A ventisette anni dalla ratifica della Convenzione Onu contro la tortura, il Parlamento italiano ha nuovamente affossato la discussione sull’introduzione del reato di tortura. È accaduto al Senato, a metà luglio, esattamente quindici anni dopo il G8. Ma non è detto che l’ennesimo rinvio rappresenti un’occasione perduta: il testo in discussione è infatti pieno di lacune: prevede un delitto “comune”, cioè commesso da “chiunque” e non specificamente dagli agenti in divisa, come invece prescrive la Convenzione; un delitto che deve essere posto in essere a patto che le condotte di “chiunque” siano plurali (“violenze e minacce gravi”) e dalle conseguenze certe, com’è del resto un “verificabile trauma psichico”. Così com’è, questa legge rischia così di lasciare impunite forme di tortura la cui analisi negli anni ha coinvolto discipline diverse, come psichiatria e psicologia: sono “dolci” le modalità della “tortura bianca”, dove il corpo della vittima della tortura paradossalmente resta intatto.

Se il Ddl fosse approvato dal Parlamento nella versione attuale, concentrato sul fisico più che sulla mente del torturato, il cono d’ombra dell’impunità sarebbe allargato. A denunciarlo, tra gli altri, è anche il sostituto procuratore di Genova, Enrico Zucca, pubblico ministero al processo per le violenze degli agenti nella scuola Diaz-Pertini. “Tra le tecniche di tortura utilizzate nel mondo ed elencate da Amnesty International -spiega Zucca-, all’incirca la metà avvengono per omissione. E queste forme non sarebbero punite se passasse così com’è la proposta di legge in discussione”. È il caso ad esempio della “seggiola palestinese” usata in Iraq dai torturatori Usa, come ha raccontato nelle sue memorie il reduce Eric Fair (e che Zucca ha recensito su questa rivista nel mese di maggio, bit.ly/zucca-fair). “Si tratta di una seggiola rudimentale alta non più di 60 centimetri a cui viene legato il prigioniero da interrogare in posizione accovacciata -continua il sostituto procuratore-. Una volta legato, è il prigioniero che fa tutto. La tortura è quella. Ed è un solo atto. Quale legislatore può concepire una norma sulla tortura che implichi una reiterazione o metta un plurale nelle condotte? Solo un legislatore che non vuole reprimere la tortura”.

“La tortura non sempre produce conseguenze uguali per tutti e ciò che accade nella società in cui si trova la vittima ha un peso enorme” (Adriano Zamperini)

Il “bianco” non addolcisce la violenza che si scaglia sui sensi, sulle percezioni, sugli schemi relazionali, sull’esperienza della persona. E che prevede l’isolamento, la manipolazione dell’ambiente (luce e buio), la negazione dell’orientamento, l’alterazione del rapporto sonno/veglia, postura forzata, minacce di morte, uso degli animali sia per terrorizzare sia per umiliare, fino alla promiscuità negli ambienti. Non è soltanto una definizione circoscritta alla manualistica, come hanno potuto verificare Adriano Zamperini -docente di Psicologia della violenza all’Università di Padova- e Marialuisa Menegatto -psicoterapeuta, ricercatrice presso l’Università di Padova e dottoranda all’Università di Verona-. Nel corso della loro esperienza, infatti, hanno “riscontrato con metodi scientifici” come la tortura bianca sia stata perpetrata ad esempio all’interno della caserma di Bolzaneto durante il G8 del 2001. “L’attuale formulazione del reato di tortura -riflette Zamperini- appare vecchia, avendo in mente una forma di tortura ‘cruenta e somaticamente visibile’ che è già stata bypassata dalle sue pratiche odierne”. Anche quel “verificabile trauma psichico” richiesto dal Ddl tradisce l’approccio del legislatore; secondo il relatore Nico D’Ascola quell’espressione non è che “un momento di dialogo con una disciplina diversa, che è la psichiatria; la psichiatria moderna ha strumenti indiscutibili, condivisi a livello mondiale, di verifica dei traumi psichici”.

“Attenzione -fa notare invece Zamperini-: quando la sofferenza è relegata a questione sanitaria, il rischio è mettere la sordina alle tante ‘implicazioni del patire’ in un certo contesto sociale, nascondendo financo la mano che ha colpito quella persona. Perché la tortura non sempre produce conseguenze uguali per tutti e, oltre alla sofferenza individuale, ciò che accade nella società in cui si trova la vittima ha un peso enorme sul senso della sofferenza, su come si affronta e sulla sua evoluzione”.
“Bolzaneto non è finito, è continuato -scandisce- e l’evidenza del trauma è relativa”.

Lo sa Lorenzo Guadagnucci, giornalista, editorialista di Ae, testimone e vittima della tortura alla scuola Diaz. “Le mie prime crisi di panico non si sono manifestate immediatamente -racconta- ma a due anni dai fatti”. Sarebbe stato un “trauma” “verificabile”? Forse. Si è trattato di tortura? Certamente. Ma il reato, un anno e mezzo dopo la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo, non c’è, e rischia di dimenticare la “tortura bianca”. 

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