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Se gli interessi sul debito “doppiano” gli investimenti pubblici

Le misure di breve periodo contenute nella “spesa corrente” delle pubbliche amministrazioni sono prevalenti rispetto alle spese rivolte alla costruzione del futuro, ovvero le spese in “conto capitale”. Che sono crollate di un terzo dal 2009, anche a causa di vincoli anacronistici come il “pareggio di bilancio”. L’analisi di Alessandro Volpi

Il cantiere per il raddoppio della linea ferroviaria regionale tra Pistoia e Lucca, aperto da Rfi nel corso del 2016 - foto di https://www.flickr.com/photos/ferroviedellostato

È possibile far ripartire l’economia italiana senza che prenda corpo una reale spinta mossa dagli investimenti pubblici? A una simile domanda, destinata ad apparire quasi retorica, non si può dare che una sola risposta: no, non è possibile.
Nonostante ciò gli investimenti pubblici hanno conosciuto negli ultimi anni un crollo vistoso: dopo essere passati dai 45 miliardi di euro del 2005 ai 50 del 2008 e aver toccato il picco di 52 miliardi del 2009, hanno preso a scendere. C’è stata una repentina discesa a 45 miliardi già nel 2011, mentre nel 2016 sono stati poco più di 35 miliardi.
Quest’ultima caduta, peraltro, non ha permesso al nostro Paese di utilizzare i margini di flessibilità faticosamente concessi dall’Unione Europea, che avrebbero consentito all’Italia di investire una ulteriore quota dello 0,25 per cento del prodotto interno lordo (PIL) in settori strategici.
Si tratta di una perdita non banale: secondo le recenti stime del World Economic Outlook del Fondo monetario internazionale, anche un limitato incremento della spesa per investimenti pubblici, pari allo 0,5% del PIL, potrebbe generare nel breve periodo una ulteriore crescita del prodotto interno lordo per una percentuale analoga.

Dopo un picco nel 2009, quando raggiunsero i 52 miliardi di euro, gli investimenti pubblici in Italia sono scesi. E nel 2016 sono stati poco più di 35 miliardi

Il mancato utilizzo della flessibilità potrebbe determinare poi la conseguenza negativa di far decadere, nel prossimo futuro, le richieste italiane di nuovi margini di flessibilità che sono peraltro molto importanti per il rispetto dei parametri europei; se un Paese che fa pochi investimenti non utilizza le prerogative concesse, non ha senso assegnargliene altre. Il problema vero però non è questo, perché anche utilizzando in pieno i margini di flessibilità le dimensioni dello stock degli investimenti pubblici rimarrebbero del tutto insufficienti: una simile carenza di investimenti è certamente dettata da più ragioni, molte delle quali ben poco comprensibili, a cominciare dagli ormai inutili vincoli del patto di stabilità e dalla necessità di realizzare il pareggio di bilancio; vincoli che sicuramente diventano più stringenti per un Paese come l’Italia che è gravato da un pesantissimo indebitamento.

“Le misure di breve periodo contenute nella spesa corrente, sono in larghissima misura prevalenti rispetto alle spese rivolte alla costruzione del futuro che contraddistinguono invece le spese in conto capitale”

Nonostante queste motivazioni tuttavia, come accennato, 35 miliardi di euro in investimenti pubblici sono davvero una cifra irrisoria, incapace di soddisfare persino le esigenze ordinarie della spesa pubblica e quindi in nessun modo in grado di svolgere una funzione di rilancio economico.
L’inadeguatezza delle cifre impiegate è resa ancora più marcata da due elementi ulteriori. Il primo è costituito dalla struttura stessa del bilancio delle amministrazioni pubbliche, dove compaiono voci con cifre ben diverse rispetto agli investimenti pubblici. Dal conto economico consolidato infatti emerge una crescita dei consumi intermedi, quelli relativi a beni e servizi utilizzati nel processo di produzione dei consumi finali, dagli 89,5 miliardi del 2013 ai 91 del 2016.
Ancora più significativo è il peso dell’aumento della spesa per prestazioni sociali in denaro, lievitate -tra il 2013 e il 2016- da 319,6 miliardi a 337,5. Se poi si considera il totale delle uscite correnti, queste assommano nel 2016 a quasi 772 miliardi di euro, a fronte di poco più di 57 miliardi di uscite in conto capitale.

Appare evidente, alla luce di ciò, che le misure di breve periodo, legate alla gestione ordinaria, contenute nella spesa corrente, sono in larghissima misura prevalenti rispetto alle spese rivolte alla costruzione del futuro che contraddistinguono invece le spese in conto capitale. Per fornire un ulteriore dato di raffronto è utile ricordare che solo la spesa per gli interessi sul debito, pur molto ridotta negli ultimi anni, si è attestata a circa 66 miliardi di euro, quindi quasi il doppio della spesa per investimenti: il peso del passato rischia così di cancellare gli spazi di costruzione del futuro.

Il secondo elemento è riconducibile alla costante lievitazione delle entrate correnti delle amministrazioni pubbliche: le imposte dirette sono passate da 241 miliardi di euro del 2013 a 248,4 del 2016, mentre quelle indirette da 239,8 a 242. Per effetto di una struttura siffatta il saldo corrente si è significativamente consolidato, passando da 2 a quasi 10 miliardi di euro.
Di fronte a simili numeri la debolezza degli investimenti pubblici risulta ancora più incomprensibile: sarebbe necessario infatti spostare risorse dalla spesa corrente, soprattutto da quella per i consumi intermedi, a quella per gli investimenti, avendo chiaro che la lievitazione delle imposte ha senso solo nella misura in cui è in grado di sostenere spese realmente finalizzate al miglioramento dei redditi dei cittadini.

* Alessandro Volpi, Università di Pisa

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