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Economia / Opinioni

Italia e Francia: le tensioni diplomatiche da evitare

Dalla bilancia commerciale alla fine della politica di liquidità facile della Banca centrale europea, passando per la sostenibilità del debito pubblico del nostro Paese. “Tre grandi ragioni di natura economica che sconsigliano anche oggi una ‘guerra’ con i vicini d’Oltralpe”. L’analisi di Alessandro Volpi

Il presidente francese Emmanuel Macron con il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte

I rapporti tra Italia e Francia hanno avuto, anche in passato, momenti difficili. Una delle maggiori tensioni diplomatiche si ebbe nell’agosto del 1893 e fu scatenata da questioni legate ai migranti, italiani. Ad Aigues Mortes, una cittadina della Linguadoca, dove avevano trovato lavoro nelle saline locali molti piemontesi, lombardi e veneti, che venivano considerati una grave minaccia per la manodopera locale, la diffusione incontrollata di una voce, del tutto infondata, secondo cui gli italiani avevano ucciso alcuni francesi scatenò una vera e propria caccia all’uomo destinata a concludersi con il massacro di un numero ancora oggi imprecisato di lavoratori italiani.

All’episodio seguì una grave crisi tra i due Paesi e in Italia si ebbero dure proteste nei confronti dell’ambasciata francese a Roma. Si trattò di una bruttissima vicenda che avrebbe caratterizzato le relazioni fra i due Stati, certamente non facili negli anni successivi, tanto da gravare in maniera assai negativa sugli scambi commerciali e più in generale sull’economia italiana. Una simile vicenda, giunta dopo la guerra doganale degli anni Settanta-Ottanta e prima delle conflittualità economiche legate all’autarchia, conferma l’idea, molto evidente, che il deterioramento dei rapporti tra Francia e Italia ha costituito storicamente un pericolo per entrambi i Paesi, in primis per il nostro.

In quest’ottica emergono almeno tre grandi ragioni di natura economica che sconsigliano anche oggi una “guerra” diplomatica con i vicini d’Oltralpe.
1) Mario Draghi ha appena annunciato che alla fine del 2018 si esaurirà la politica di liquidità facile con cui sono stati iniettati nelle vene dei sistemi finanziari europei ben 2.500 miliardi di euro; da tale fiume di risorse sono discesi evidenti benefici, a cominciare da un effetto sulla crescita del Pil pari allo 0,75% all’anno dal 2015 e dal repentino e proficuo abbattimento del conto interessi sul debito, sceso per il nostro Paese dagli 83,5 miliardi del 2012 ai 66,5 miliardi del 2016. Grazie alla strategia della “colomba” Draghi, in questi anni, il colossale, e indispensabile, debito pubblico italiano è stato in gran parte acquistato dalla Banca d’Italia con la liquidità della Bce; solo nel 2017, l’istituto di Via Nazionale ha comprato titoli italiani per 118 miliardi di euro, circa la metà del fabbisogno destinato a finanziare le esigenze di medio e lungo termini e a rimborsare i creditori per i loro titoli in scadenza. Quando, a fine 2018, verrà meno l’azione della Bce chi provvederà ad acquistare i 380 miliardi di titoli di Stato emessi per il 2019?
È molto probabile che le banche italiane già imbottite di titoli del debito italiano non potranno farsi carico della quota parte di titoli fino ad oggi comprati dalla Banca d’Italia così come è assai difficile che possa aumentare la quota di titoli acquistati dalle famiglie italiane, ormai in possesso solo del 5% del totale dei titoli. Serviranno invece investitori internazionali, che attualmente detengono il 32% del debito italiano e che guarderanno, però, come del resto i fondi comuni italiani, alla stabilità del Paese, rispetto alla quale una forte conflittualità con gli altri partner europei, a cominciare dalla Francia, non costituisce certo un buon segnale.

2) Nei prossimi mesi il governo Conte dovrà trattare in sede europea come evitare che scatti la correzione dello 0,3% del Pil, pari a 5 miliardi, già nel 2018 e poi dello 0,9 nel 2019, imposta dallo sforamento da parte italiana dei vincoli relativi al percorso di rientro dal deficit. In altre parole la “diplomazia economica” dovrà trovare il modo di garantire al nostro Paese la flessibilità necessaria per scongiurare una manovra correttiva di una quindicina di miliardi che certo renderebbe molto difficile immaginare l’attuazione anche solo di una parte del “contratto di governo”. L’inasprimento delle conflittualità con la Francia non appare, in tale ottica, in alcun modo utile, dato il peso preponderante dell’asse franco-tedesco all’interno del panorama europeo e data la tradizionale fermezza della Germania nel pretendere il rispetto dei vincoli di bilancio.

3) L’economia italiana ha bisogno di una bilancia commerciale attiva perché molta della flebile ripresa in atto dipende dalle esportazioni; nel 2017 il saldo attivo è stato pari a 47,5 miliardi di euro e gran parte di questo dato dipende dalle esportazioni in Europa che rappresentano il 66% del totale. In un simile quadro l’export italiano in Francia è cresciuto arrivando, nel 2017, a 46, 1 miliardi a fronte di importazioni per 35 miliardi; un deterioramento delle relazioni tra i due Paesi sarebbe assai dannoso anche da questo punto di vista. Non ha davvero alcun senso tornare alla fine dell’Ottocento.

Università di Pisa

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