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Economia / Opinioni

Italia-Cina: non è tutto oro quello che luccica

23 marzo 2019, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, con il presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping, al termine della cerimonia di firma di accordi tra Italia e Cina a Villa Madama - © Presidenza del Consiglio dei ministri

Immaginare che Pechino possa costituire l’uscita di sicurezza per collocare il crescente debito italiano, di fronte alla parziale ritirata della Bce e alla fuga degli altri compratori esteri e delle banche italiane, già fin troppo imbottite di debito nazionale, risulta decisamente illusorio. Ecco perché. L’analisi di Alessandro Volpi

In occasione del recente viaggio in Italia del presidente cinese Xi Jinping sembra che uno dei temi trattati con il governo italiano, al di là degli accordi commerciali, sia stato quello della possibilità per alcuni istituti dell’ex impero celeste, e per la stessa banca centrale, di comprare titoli del debito pubblico italiano. Si tratta di una eventualità tutt’altro che remota dal momento che il debito italiano sta crescendo, negli ultimi mesi, in maniera assai sensibile e che la Banca Centrale Europea ha ridimensionato la propria linea di liquidità facile nei confronti dei debiti nazionali.

In realtà, la possibilità che i cinesi “aiutino” il Tesoro italiano nel collocamento dei suoi titoli a tassi di interesse non gravosi non appare facilmente percorribile per una serie di ragioni. 1) La Cina è un Paese fortemente indebitato; sommando il debito pubblico con il debito dei privati e quello delle amministrazioni locali si arriva ad una percentuale del 280-300% rispetto al Pil, che negli ultimissimi anni ha segnato un parziale raffreddamento. A preoccupare le autorità cinesi sono soprattutto i debiti delle amministrazioni locali, mai veramente quantificati e suscettibili di notevoli sorprese; molte di queste amministrazioni, infatti, si sono mostrate, nel tempo, insolventi nei confronti di banche più o meno grandi causandone, in vari casi, il fallimento. Anche il debito pubblico in senso stretto è lievitato nell’arco di un decennio, di fatto raddoppiando, e superando la soglia del 60% del Pil, per un valore complessivo dei titoli intorno ai 7mila miliardi di dollari che devono essere collocati.

2) Per finanziare il proprio sistema bancario e per collocare gran parte del proprio debito, la Banca del popolo, la banca centrale cinese, ha emesso e sta emettendo una gran quantità di carta moneta, destinandola, appunto, ad esigenze interne; in altre parole gli yuan vengono creati quasi senza reali limiti, nell’ambito di un sistema di controlli del tutto opaco, per provvedere al pagamento del debito pubblico e dei debiti locali e, al contempo, per spingere il sistema dei consumi interni, tenendo basso il livello del carico fiscale. Naturalmente perché questa gigantesca massa di carta moneta artatamente prodotta non si trasformi in una svalutazione dello yuan troppo marcata, tanto da trasformare il beneficio in termini competitivi di una moneta debole in una pesantissima inflazione, destinata a ridurre il potere d’acquisto dei cinesi, è necessario che non entri mai in contatto con il sistema monetario internazionale. In altre parole, occorre che i pagamenti esteri operati dalla Cina e dalle sue imprese avvengano in una moneta forte, oggi individuata dagli stessi cinesi nel dollaro.

3) Nella scelta dei titoli del debito pubblico da acquistare, dunque, le autorità cinesi devono tener conto di almeno due dati fondamentali: in primo luogo devono comprare titoli denominati in moneta forte per reggere l’urto di una possibile svalutazione dello yuan, determinato dal suo larghissimo, e scorretto, utilizzo interno, e, secondariamente, vogliono acquistare titoli che garantiscano un buon rendimento, la certezza della restituzione a scadenza e la capacità di mantenere il valore.
In merito alla prima esigenza, è evidente che il rischio ricorrente, ventilato con cadenza periodica, che l’Italia possa uscire dall’euro e voglia tornare a dotarsi di una propria, fragilissima moneta, scoraggia gli acquirenti cinesi alla ricerca, come detto, di una valuta forte. Anche la scelta del governo italiano di trattare in maniera separata con la Cina, al di fuori del perimetro europeo, non favorisce certo l’impegno cinese nel debito italiano, se non per piccolissimi e del tutto simbolici lotti di titoli. Per quanto riguarda i rendimenti, appare evidente che i titoli emessi dal Tesoro degli Stati Uniti saranno sempre più appetibili. Gli ultimi dati forniscono un quadro in cui i tassi di interesse a breve termine sono più alti di quelli a lungo termine, un indicatore che in genere significa l’arrivo di una recessione, ma al contempo certifica che la Federal Reserve, nonostante le pressioni di Trump sul presidente Powell, non abbasserà i tassi rendendo quindi i titoli Usa assai appetibili per i cinesi. Inoltre non bisogna trascurare che i cinesi già detengono 1.100 miliardi di dollari in titoli americani, rappresentando insieme al Giappone i principali possessori del debito a stelle e strisce.
Immaginare dunque che la Cina possa costituire l’uscita di sicurezza per collocare il crescente debito italiano, di fronte alla parziale ritirata della Bce e alla fuga degli altri compratori esteri e delle banche italiane, già fin troppo imbottite di debito nazionale, risulta decisamente illusorio. Un’ultima avvertenza merita anche il rischio che eventuali finanziamenti cinesi a imprese italiane avvengano in dollari, e non in euro, perché un eventuale rafforzamento della moneta americana genererebbe, come avvenuto per altri, Paesi un aumento del conto da pagare alla Cina. Davvero, non è tutto oro quello che luccica.

Università di Pisa

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