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Esteri / Reportage

Viaggio in Islanda, tra misure anti Covid-19 ed effetti sul turismo di massa

© Luca Manes

Da metà giugno Reykjavik ha riaperto ai turisti e le autorità hanno attivato un monitoraggio capillare. Uno sforzo finalizzato anche a “salvare” la stagione turistica e un settore che incide per il 30 per cento sul Pil. Il racconto delle procedure (e delle prospettive)

L’Islanda è stato uno dei primi Paesi europei a chiudere i confini nazionali e a effettuare un altissimo numero di tamponi una volta colpita dalla pandemia del Covid-19. Così i contagiati non hanno superato le 2.200 unità e le vittime sono state “solo” 10. Da metà giugno l’isola ha riaperto al mondo, o meglio ai residenti di una serie di località dove il Coronavirus era in evidente arretramento. Per questo motivo siamo riusciti a visitare uno dei paradisi naturali dell’emisfero Nord.

La “Terra del ghiaccio e del fuoco” ci accoglie con un muro di nuvole basse e scrosci violenti di pioggia; una notte di agosto che sembra novembre inoltrato. Prima di varcare la soglia dell’aeroporto bisogna sottoporsi ai controlli per il Covid-19. La trafila è cominciata prima di partire, con la compilazione di un modulo sul sito predisposto dalle autorità locali in cui ci è toccato lasciare tutti i nostri dati personali e le indicazioni dove avremmo soggiornato. Poi abbiamo scaricato la versione locale dell’app Immuni e pagato una sessantina di euro per il test. Una procedura che non si applica per i nati dal 2005 in poi e per chi viene dai Paesi a basso rischio, individuati in Germania, Danimarca, Norvegia e Finlandia. Dall’inizio di agosto è previsto anche un secondo tampone, da fare a 5-6 giorni di distanza dal primo.

Pochi metri dopo il finger che dal velivolo ci conduce al terminal veniamo bloccati. Sono atterrati due voli, compreso il nostro, e la fila da smaltire per accedere alla postazione dei controlli è lunga. Gli addetti dell’aeroporto ripetono “State a due metri di distanza, per favore”. Dopo tre quarti d’ora abbondanti di attesa passiamo la prima “barriera”. Chi si è già registrato e ha pagato deve semplicemente scansionare il codice a barre e proseguire la fila, che questa volta è rapida. Cinque minuti e raggiungiamo l’area dove una dozzina di infermieri effettuano i tamponi, prelevando saliva e muco.

Rimanendo più di dieci giorni vorremmo organizzare il secondo test ma veniamo rimbalzati al controllo passaporti, che tale non è -l’Islanda rientra nell’area Schengen- dove una poliziotta ci informa in italiano che riceveremo un ulteriore codice che serve per il secondo tampone. Nel frattempo dobbiamo attenerci a una serie di regole (distanziamento, igiene) contenute in un volantino in inglese.

Se risultassimo positivi entro 24 ore riceveremmo una telefonata e il soggiorno in regime di isolamento sarebbe a spese delle autorità islandesi. Se avessimo il Covid-19 però la comunicazione avverrebbe in tempi molto brevi. Così non è e dopo qualche ora di sonno ritiriamo il veicolo che abbiamo affittato e iniziamo la nostra visita, non prima di aver telefonato a uno dei dieci presidi sanitari dove si può fare il secondo test, quello di Hofn. Qui si verifica l’unico intoppo: il numero di telefono è sbagliato, risponde una signora cortese ma esasperata dal ricevere continue telefonate di turisti alla ricerca del tampone. “Devo assolutamente risolvere questi problema”, dice. La chiamata (giusta) è addirittura superflua perché non ci viene chiesto nemmeno il nome, ma semplicemente di presentarci di lì a cinque giorni alle 9 in punto.

Cinque giorni dopo capiamo che la prenotazione, in effetti, non era così indispensabile. Non c’è nessun registro. Davanti al presidio sanitario c’è un asilo adibito per test e già alle 8.40 siamo in fila in quaranta. C’è il sole e il panorama è spettacolare, con le montagne riflesse nel tratto di mare a un centinaio di metri da noi. Alle 9.15 abbiamo assolto l’ultimo obbligo del “protocollo Covid-19”. Gli infermieri sono due, veloci e molto rilassati. Anche in questo caso arriva una comunicazione sull’app il giorno seguente: niente virus.

Dal 15 giugno, giorno della riapertura dei confini nazionali ai turisti, gli islandesi si sono organizzati per un’azione di monitoraggio capillare che implica tra i 2.100 e i 2.500 test giornalieri. Un impegno notevole per un Paese grande un terzo dell’Italia ma abitato solo da 360mila persone e che non può quindi contare su un personale sanitario numeroso. Uno sforzo finalizzato a “salvare” la stagione turistica e un settore che incide per il 30 per cento sul Pil nazionale.

Passato il lockdown, il Covid-19 non è visto come una minaccia tremenda. Quasi nessuno porta la mascherina, con l’eccezione di chi lavora nei bar e ristoranti. Gli spazi immensi e la densità abitativa ridotta semplificano di molto il compito di tenere i fatidici due metri di distanza. Uno dei pochi segnali tangibili della presenza della pandemia lo abbiamo in un supermercato alle 9.30 del mattino, dove ci viene spiegato che non possiamo entrare perché la fascia oraria 9-10 è dedicata agli anziani, che così possono fare la spesa entrando in contatto con un numero ridotto di persone.

Eppure, nonostante gli sforzi, un incremento di circa 200 casi (ma con un solo ricoverato) si è verificato pure in Islanda tanto che dal 19 agosto è arrivata una stretta abbastanza radicale: fra il primo e il secondo test è obbligatoria una quarantena di 4-5 giorni per tutti, turisti stranieri e islandesi di ritorno dall’estero. Una mossa che, anche in vista della riapertura delle scuole di fine agosto, il primo ministro Katrin Jakobsdottir ha dovuto prendere per mettere a tacere le polemiche sull’inopportunità di cercare di salvaguardare il turismo a scapito della salute dei cittadini islandesi. “Il gioco non vale la candela”, il messaggio recapitato alla premier da accademici ed economisti, convinti che il governo avesse fatto pagare al Paese un costo troppo alto, da tutti i punti di vista, a fronte di una presenza di turisti molto ridotta.   

In effetti le cifre ufficiali raccontano di un crollo dell’80 per cento delle presenze di turisti nel mese di luglio. Grandi assenti soprattutto gli statunitensi (27 per cento del totale 2019). La stima per agosto si aggirava su una diminuzione del 70-75 per cento. Lo conferma Petrekur Einarsamundson, tra gli addetti del Parco nazionale di Thingvellir, una delle più importanti mete turistiche del Paese, distante una cinquantina di chilometri da Reykjavik. “Non è come a giugno, quando c’era il 97 per cento in meno delle persone rispetto a un anno fa, ma adesso siamo comunque intorno al 70 per cento. Qui al centro informazioni di Thingvellir nel 2019 eravamo in cinque a lavorare, ora siamo in due”, racconta desolato.

L’Islanda per anni è stato un caso di studio per la pressione causata da flussi eccessivi di turismo, con un aumento costante di visitatori che però già nel 2019 aveva avuto una prima battuta d’arresto significativa (meno 5 per cento rispetto al 2018). Questa estate così tribolata potrebbe favorire un totale ripensamento dell’approccio dell’intero settore, a cominciare dal limitare l’“effetto Airbnb” che in tanti temono finisca per far perdere la sua identità alla capitale Reykjavik. Sperando che il Covid-19 non continui a rappresentare la variabile impazzita con cui confrontarsi.

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