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Esteri / Reportage

L’Iraq senz’acqua: così il Paese dei fiumi sta perdendo il suo patrimonio

Le paludi di Chibayish, in Iraq. © Arianna Pagani

I cambiamenti climatici e l’impatto delle grandi dighe in costruzione in Turchia e in Iran mettono a rischio il Tigri e l’Eufrate. Attentando così all’integrità delle paludi mesopotamiche, una delle più grandi zone umide al mondo

Tratto da Altreconomia 208 — Ottobre 2018

L’appuntamento è fissato alle prime luci dell’alba di fronte all’ufficio del Forum Sociale Iracheno a Baghdad. Già di buon mattino, la temperatura sfiora i trentacinque gradi. Un gruppo di ragazzi e ragazze attende, visibilmente eccitato, l’arrivo del pulmino. Hanno tra i diciassette e i ventinove anni e fanno parte di svariate organizzazioni della società civile irachena, impegnate nella tutela dei diritti umani e dell’ambiente.

Non appena la capitale, paralizzata dai suoi blackout elettrici, è lasciata alle spalle, grandi distese di palme da dattero compaiono all’orizzonte. Il paesaggio cambia; i muri anti-esplosione in cemento armato sono gradualmente sostituiti da canneti verdeggianti, mossi dal vento tiepido, circondati da arbusti bassi e spontanei. In lontananza, s’intravedono umili capanne, costruite con antichi metodi di costruzione, unendo fango, paglia e canne. La terra, un tempo fertile, è seccata dal sale delle acque che si stanno ritirando. Lungo i canali, i Ma’dan -gli arabi delle paludi, di origine sumera- cavalcano il mashouf, una barca tradizionale, simile a una canoa.

La destinazione del gruppo di attivisti è il Festival delle Paludi di Chibayish, località a 400 chilometri a Sud di Baghdad, nel cuore della mezzaluna fertile. “Andiamo a vedere le nostre bellissime paludi e le conseguenze delle dighe sull’ambiente e sulla popolazione locale”, dice Salman Khairalla, un carismatico attivista per l’acqua, poco più che ventenne. È il coordinatore della campagna di advocacy “Save the Tigris and the Iraqi Marshes”, lanciata nel 2012 da numerose associazioni irachene, e supportata dall’organizzazione non governativa “Un Ponte Per…, per sollevare l’attenzione internazionale sul patrimonio e le risorse idriche dell’Iraq.

Chibayish e le vaste paludi mesopotamiche circostanti erano, un tempo, la casa di migliaia di Ma’dan. Si estendevano su una superficie di 20mila chilometri quadrati, fino agli anni Novanta, quando Saddam Hussein decise di prosciugare queste uniche zone umide dell’Iraq meridionale, come punizione per gli arabi delle paludi, che avevano sostenuto una rivolta contro di lui. Migliaia di persone furono uccise e altrettante costrette alla fuga. Dopo la caduta del regime con l’invasione a guida statunitense del 2003, le paludi furono allagate e molti abitanti ritornarono a viverci.

Oggi, nuovi pericoli minacciano questa florida riserva naturale e i suoi abitanti. Dopo decenni di guerre -inclusa l’ultima battaglia contro Daesh- l’Iraq rischia, infatti, di perdere l’acqua del Tigri e dell’Eufrate che irrora le paludi mesopotamiche. Il cambiamento climatico, l’assenza di politiche idriche interne e l’impatto delle grandi dighe in costruzione in Turchia e Iran rappresentano alcune delle minacce più incombenti per il Paese.

“Se non ci fossero state le paludi e i fiumi, non avremmo avuto i Sumeri e la civilizzazione che conosciamo” – Rashad Salim

Lo spiega bene Ali Alkarkhi, attivista per l’acqua, esperto di questioni idriche e fondatore dell’associazione locale “Humat Dijlah”. “In Iraq, il problema dell’acqua assume due dimensioni. Da una parte vi è una pessima gestione interna e ciò include molti elementi, come la scarsità di metodi tecnologici e moderni d’irrigazione e la mancanza di prestiti ai contadini per cambiare colture che richiedono molta acqua. Dall’altra parte, vi è un problema di debolezza nelle relazioni internazionali. Il 70% dell’acqua è controllata da Iran e Turchia. I nostri vicini controllano le dighe e gli affluenti, cambiandone la direzione, come meccanismo di ricatto. Il governo iracheno è così debole da non essere in grado di porre la questione dell’acqua come priorità nella sua agenda internazionale”.

La crisi idrica, oltre a colpire il Tigri e l’Eufrate, sta colpendo le paludi meridionali dell’Iraq, dichiarate patrimonio mondiale dell’Unesco nel 2016, grazie alle campagne della rete di attivisti iracheni, costruita intorno all’“Iraqi Civil Society Solidarity Initiative”. Secondo Alkarkhi, nonostante il successo internazionale, il livello dell’acqua continua a ridursi e la siccità rischia solo di peggiorare la situazione, già gravemente compromessa. Per questo, pochi mesi fa, “Humat Dijlah” insieme alla rete internazionale “Save the Tigris” ha lanciato, in arabo, sui social network l’hashtag “Iraq without rivers”. “L’Iraq è conosciuto come il Paese dei fiumi. Noi vogliamo richiamare l’attenzione sull’assenza di acqua dei fiumi iracheni. Nei prossimi dieci anni, il Tigri e l’Eufrate rischiano di prosciugarsi e gli arabi delle paludi, gli storici abitanti, saranno costretti a migrare. Se perdiamo le paludi, perderemo questo immenso patrimonio universale”, chiarisce Alkarkhi.

Abu Haidar è uno dei barcaroli delle paludi irachene © Arianna Pagani

 

Fiumi, ambiente e paludi: la culla della civiltà
Lungo i canali navigabili che attraversano le paludi cotte dal sole, gli abitanti tagliano il tamarisco, il cui legno profumato è perfetto per cucinare una specialità di pesce conosciuta con il nome di masguf. Fuori dalle case, il letame dei bufali è disposto in pile a seccare e presto servirà come combustibile per cuocere il pane e tenere lontane le zanzare. Gli arabi delle paludi, il cui stile di vita ruota attorno alle paludi da 5.000 anni, vivono in case galleggianti fatte interamente di canne raccolte dall’acqua e sopravvivono pescando e allevando bufali. Florido epicentro di biodiversità, ricco di vegetazione, uccelli, pesci e bufali, le paludi mesopotamiche sono una delle più grandi zone umide al mondo e svolgono un ruolo fondamentale per la migrazione intercontinentale degli uccelli. In questa preziosa oasi naturale, distante da conflitti e tensioni, uomo e ambiente si fondono insieme in un equilibrato connubio, minacciato oggi, dall’inquinamento e da scellerate politiche idriche nazionali.

“Se non ci fossero state le paludi e i fiumi, non avremmo avuto i Sumeri e la civilizzazione che conosciamo. Non per l’acqua, ma per la possibilità di trasportare oggetti e persone. Questo ha creato connessione e scambi e ciò rende unico questo luogo”, spiega Rashad Salim, un affascinante uomo barbuto sulla cinquantina, seduto all’interno di un mudhif, una tradizionale pensione per gli ospiti, costruita con canne e corde. Salim è un artista d’origini irachene e un esploratore con un particolare interesse per la storia e la cultura tangibile e intangibile della Mesopotamia. È uno degli ultimi costruttori delle antiche barche a remi della tradizione mesopotamica, indispensabili ai Sumeri, per il trasporto e il commercio con le altre popolazioni. Ha da poco presentato il suo ambizioso “Safina Project”, volto a far rivivere le barche e gli antichi mestieri dell’Iraq. Il progetto si concentra sulla protezione del patrimonio culturale mesopotamico, l’artigianato, il materiale e le tecniche, nonché il ricamo tradizionale. Salim crede, infatti, che esista una connessione tra l’artigianato e l’ambiente e che la protezione dell’ambiente possa preservare la cultura irachena.

Marshes Chibayish, Iraq © Arianna Pagani

“Quando perdi un mestiere, perdi questa connessione tra la civiltà e l’ambiente. Oggi, la maggior parte delle barche è realizzata in vetroresina e resina, materiale che non proviene da questo ambiente. La plastica sta inquinando i nostri fiumi e di conseguenza anche le paludi e i suoi animali. Solo proteggendo l’ambiente, proteggeremo questa cultura millenaria mondiale”, aggiunge l’artista. All’interno del mudhif un gruppo di sceicchi locali, abbigliati con le dishdasha, le tradizionali vesti bianche, rendono omaggio agli ospiti offrendo pane di riso appena sfornato e il delizioso masgouf, il pesce affumicato della cucina irachena. I visitatori sono accolti su tappeti persiani stesi per terra. Giovani attivisti siedono accanto a studiosi internazionali, abitanti locali e archeologi. Franco D’Agostino è docente di Assiriologia all’Università Sapienza di Roma e direttore degli scavi nel sito di Eridu, la più importante capitale religiosa della Mesopotamia sumerica. Anche lui difende il legame inscindibile tra ambiente e civiltà. “Nella civiltà sumera, gli animali e l’ambiente avevano un’importanza straordinaria. I tre siti archeologici, Ur, Eridu e Uruk erano immersi in una realtà ambientale, identica a quella della paludi mesopotamiche di oggi. La storia di quella civiltà e di tutta l’umanità è connessa all’ambiente e ai due grandi fiumi”.

La costruzione di megaprogetti dirompenti, come la diga di Ilisu in Turchia e quella di Daryan in Iran, avrà un impatto distruttivo sui flussi d’acqua in Iraq. Le dighe turche e iraniane, strumento di egemonia regionale, rappresentano, infatti, un pericolo reale al corso dei fiumi millenari. Il Southeastern Anatolia Project (GAP) prevede la costruzione di ventidue dighe nel Sud-Est anatolico (diciotto già concluse), tra cui la diga di Ilisu, pietra miliare della politica delle grandi dighe per controllare il flusso del Tigri e dell’Eufrate in Siria e Iraq. Secondo uno studio del National Geographic, il GAP a pieno regime ridurrà dell’80% la portata delle acque del Tigri. 

I progetti strategici d’ingegneria civile minacciano, inoltre, di cancellare due posti della storia mondiale. “Per colpa delle cattive politiche dell’acqua rischiamo di perdere la città turca di Hasankyef, perché sommersa dall’acqua e le paludi mesopotamiche per la siccità”, afferma Ismaeel Dawood, attivista iracheno di “Un Ponte Per”. Che aggiunge: “L’acqua è utilizzata come strumento politico da parte dell’Iran e della Turchia contro i curdi, i siriani e gli iracheni. Quest’acqua è di tutti. La popolazione di questi Paesi ha bisogno che l’acqua sia usata come strumento di pace sostenibile e non come strumento di egemonia politica, causa di future guerre e conflitti”. Sulla strada del ritorno, Salman Khairalla, si ferma ad assaggiare l’acqua dell’Eufrate. Sono tredici anni che controlla e assaggia i fiumi. “Prima del petrolio, questa era la terra dell’acqua e della più grande civiltà. Dovremmo prendere esempio dai Sumeri e dal legame che avevano con l’ambiente”.

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