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Finanza / Inchiesta

L’Italia non è preparata all’invecchiamento. La finanza sì

© Maurizio Maule - Agenzia Fotogramma

L’innalzamento dell’età media della popolazione è un fenomeno globale e inarrestabile. Mentre nel nostro Paese mancano strutture e risorse, i fondi puntano sulle residenze assistenziali come potenziale business

Tratto da Altreconomia 195 — Luglio/Agosto 2017

Nel mondo, oggi, 868 milioni di persone sono ultrasessantenni. È il 12% della popolazione. Secondo proiezioni fatte proprie dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), nel 2050 saranno 2,4 miliardi. Significa che oltre 20 persone su 100 avranno allora più di 60 anni. L’invecchiamento della popolazione mondiale (ageing) è un fatto. Alcuni Paesi sono proiettati nel futuro.

Nei primi cinque posti per “peso” degli over 65, quattro sono occupati da rappresentanti europei. Dopo il Giappone -dove già oggi oltre il 25% dei cittadini è anziano- incontriamo infatti l’Italia, la Grecia, la Germania e il Portogallo. Secondo Maurizio Bussolo -capo economista presso il “Chief Economist Office” per l’Europa e l’Asia centrale della Banca mondiale e tra gli autori del report Golden ageing– il tema va affrontato però partendo da una premessa: “L’invecchiamento dell’individuo è un risultato importante e positivo. Il fatto cioè che le persone possano vivere più a lungo è merito della medicina, dell’educazione, dell’alimentazione. Di per sé, dunque, non è una cosa negativa”.  Il punto è che quando un Paese come l’Italia “non è un Paese per vecchi” -per citare Vincenzo Costa, presidente dell’Auser (Associazione per l’invecchiamento attivo, www.auser.it)-, un fenomeno demografico atteso diventa una potenziale emergenza sociale. E per alcuni un mercato redditizio.

Dopo la battuta, Costa ordina le tessere che la sua associazione ha collezionato nella ricerca “Domiciliarità e residenzialità per l’invecchiamento attivo” (l’ha curata Claudio Falasca). “Nel 2050 -spiega-, l’Istat prevede che gli anziani saranno 21.775.809, il 34,3% della popolazione. Si passerà da un rapporto 1 a 5 a un rapporto 1 a 3”. Davanti al cambiamento demografico, però, “la risposta nazionale è gravemente insufficiente”. Una “prova” emblematica è quella relativa all’offerta di presidi residenziali socio-sanitari. L’ha fornita ad aprile di quest’anno l’istituto di ricerca “Scenari immobiliari” (www.scenari-immobiliari.it): “La Commissione europea […] identifica con 50-60 posti letto ogni 1.000 abitanti di età superiore ai 60 anni il parametro standard di offerta di residenze sanitario assistenziali -si legge nel ‘Rapporto nazionale sulle Residenze Sanitarie Assistenziali’-. Attualmente l’Italia si colloca ben al di sotto di questo parametro, con un’offerta di circa 18,5 posti letto ogni 1.000 anziani”. In termini assoluti stiamo parlando di 240mila posti a fronte di una stima di “bisogno potenziale” sul lungo periodo di 2,7 milioni di anziani non autosufficienti. I presidi residenziali sono carenti e mal distribuiti: “Il Nord Italia guida la classifica con 181mila posti letto accreditati per il 2013 -prosegue il report dell’istituto di ricerca- mentre nello stesso anno nel meridione il numero di posti letto operativi si fermava a quota 17mila”.


È un paradosso. Secondo le previsioni dell’Istat, da qui al 2040, infatti, sarà proprio nel Sud del Paese che si concentrerà la quota più consistente di over 85 sulla popolazione (passando dall’odierno 2,3% dell’area al 5,8%).

Quella della residenzialità socio-assistenziale non è la strada obbligata per tutti gli anziani, ovviamente, ma il tasso di “scopertura” -come lo definiscono i curatori del Rapporto OASI 2016 del Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale (CERGAS) dell’Università Bocconi di Milano- è evidente. I ricercatori hanno preso in esame il bisogno della popolazione non autosufficiente over75 e non quello degli over65. Ciò nonostante, “la maggior parte delle Regioni presenta tassi di copertura del bisogno tramite servizi di lungo assistenza pubblici (RSA) tra lo 0 e il 30%”. Per il professor Francesco Longo, direttore del CERGAS, queste “ampie zone di ‘scopertura’ sono presumibilmente gestite o tramite autoorganizzazione delle famiglie, o tramite ricorso ad altri setting assistenziali, o tramite l’assenza completa di assistenza”. Nella voce “assistenza informale” rientrano anche le “badanti”. Il loro numero esatto è difficilmente individuabile. Nel 2015 -la fonte è l’Osservatorio dell’INPS sul lavoro domestico- i lavoratori domestici in Italia erano 886.125, e di questi 375.560 sarebbero badanti (per il 92,9% donne e per l’80,9% straniere). Per il direttore del CERGAS questa cifra andrebbe ragionevolmente moltiplicata per due.

Dunque, tra carenza strutturale e assistenza informale zoppicante, già oggi “l’80% dei 2,7 milioni di non autosufficienti over65 (2,3 milioni di persone circa) sono undertreated (ovvero ricevono assistenza insufficiente rispetto ai loro bisogni) -come spiega il report del CERGAS-, assistiti in modo informale, curati grazie all’auto-organizzazione delle famiglie”. Tutto questo comporta un circolo vizioso e una pacifica “invasione” del sistema sanitario da parte di chi cerca disperamente di “trovare una qualche risposta formalizzata e strutturata” (Longo). “Il pronto soccorso in ospedale diventa l’ultima chance che uno ha per curarsi”, sintetizza Costa dell’Auser. La risposta pubblica è in crisi. Sul versante delle RSA -la parte più consistente dei 12.261 presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari attivi in Italia e censiti l’ultima volta dall’Istat nel 2013- la media ponderata a livello nazionale vede una ripartizione delle spese per RSA coperte per il 51% dal Servizio sanitario (in capo alle Regioni attraverso lo strumento dell’accreditamento) e per il 46,6% dall’assistito, eventualmente supportato dal Comune di residenza (2,4%). Dal suo osservatorio privilegiato, Longo è convinto che il contributo pubblico non crescerà. “Le prospettive di un aumento della spesa pubblica sono modeste per non dire nulle”, riflette a voce alta poco prima di dar conto di un altro fallimento. Quello cioè dell’assistenza domiciliare integrata (ADI, erogata dalle Aziende sanitarie locali), uno degli strumenti su cui un soggetto come Auser punta molto per evitare agli anziani dei “parcheggi hollywoodiani con piscina” dove la permanenza media è riferita agli ultimi 2/3 anni di vita (“6/8 mesi secondo il professor Longo).

Per il CERGAS, “l’intensità assistenziale media dell’ADI nel Paese è di due ore la settimana, quindi lontana da una possibilità di assistenza robusta”. La residenzialità socio-assistenziale è un fatto di pochi e per pochi. Quella a casa, di gran lunga preferibile perché preserva abitudini, relazioni e punti di riferimento, rischia di essere una chimera. “L’80,3% degli anziani vive in casa di proprietà -spiega Costa- ma il 55% di queste abitazioni hanno più di 50 anni e dunque evidenti limiti infrastrutturali. Il principale? Il 76,1% di queste è senza ascensore e basta una difficoltà motoria anche ‘semplice’ per impedire a una persona di uscire di casa. È complicato invecchiare in un Paese come il nostro”.

Il quadro desolante si accompagna però alla crescita sempre più sostenuta di quello che “Scenari immobiliari” ha chiamato “Il nuovo mercato del Grigio”: “Se le proiezioni riferite ai trend demografici e alla relativa segmentazione della popolazione diventeranno realtà, il fabbisogno di residenze socio assistenziali raggiungerà quantitativi elevati, si stimano circa 8.000 nuovi posti letto all’anno”. Ecco perché la finanza tradizionale, sotto la forma dei fondi immobiliari, si sta muovendo lungo il canale dell’acquisto e della gestione -talvolta coincidente- di nuove RSA. “L’asset allocation immobiliare riguardante strutture a destinazione d’uso RSA -dà conto Scenari immobiliari- nel 2016 registrava un investimento complessivo, di circa 1.200 milioni di euro, pari all’1,70% dell’investimento complessivo in immobili”. Tra i casi più interessanti c’è quello del Fondo Personae (www.fondopersonae.it), lanciato un anno fa da Serenissima SGR e da Orpea. Quest’ultima è un colosso internazionale con sede in Francia, come racconta Roberto Tribuno, amministratore delegato in Italia del Gruppo (nel nostro Paese i posti in pancia a Orpea sono 1.800). “Siamo presenti in 12 Paesi, con 80mila posti letto e 800 strutture. Siamo quotati in Borsa e dal 2014 siamo inseriti nel listino STOXX 600, indice azionario composto dalle 600 principali capitalizzazioni di mercato europee”. Il “Fondo” ha un obiettivo: “dotare il sistema di uno strumento per rinnovare e sviluppare strutture. Perché il pubblico si ritira giorno dopo giorno”. In cambio, i rendimenti sono “fantastici” a detta di Tribuno, aggirandosi oltre il 5% all’anno. Il motivo è semplice: “L’investimento in RSA garantisce dei flussi di cassa certi, costanti e consistenti garantiti dagli importi delle rette pagate dal privato e/o dal pubblico -si legge in un ‘quaderno’ dedicato di Assoprevidenza e Itinerari Previdenziali del 2016-, che quindi consentono la perfetta “bancabilità” dell’operazione”.

A detta di Orpea, però, occorre che il mercato italiano si “concentri”: “Oggi l’offerta di RSA è frammentata e poco strutturata. In Francia, 20 operatori contano oltre 10mila posti letto. In Italia, invece, il primo non ne fa 6mila e il secondo 4,5mila”. I primi dieci per numero di stutture gestiscono il 10% dei posti accreditati. Tra loro spiccano per fatturato il Gruppo Kos, Sereni Orizzonti Spa, Gruppo Giomi Spa, Korian, Orpea, Med Service, Coopselios e Codess. Al Sud questa “soluzione” non è percorribile. I gruppi citati, infatti, non esistono. La loro presenza è “inconsistente”: “La Puglia vede solo l’1,5% delle strutture gestite da tali enti mentre in Sardegna e in Umbria si registra rispettivamente lo 0,8% e lo 0,4%”, concludono gli autori del rapporto di Scenari immobiliari. E qui sta il punto. Chi governerà lo sviluppo del mercato? Vincenzo Costa è scettico sulla “sensibilità” di soggetti chiamati per natura a garantire rendimenti legittimi e non invece a rispondere a difficoltà familiari. “Il 52% delle famiglie italiane è incapiente -riflette-, cioè non potrà mai pagare nemmeno una badante regolarmente assicurata, che può costare 1.300, 1.600 euro al mese. Un limite che, come la ‘retta’ residenziale, è lontanissimo dall’indennità di accompagnamento che viene riconosciuta a una persona giudicata totalmente non autosufficiente, ovvero 450 euro”.

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