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Attrezzarsi per le emergenze dei prossimi decenni. L’esperienza di Emergency, da Ebola a Covid-19

Rossella Miccio, presidente di Emergency - © Emergency

L’esperienza che l’ong ha maturato sul campo in Africa Occidentale è stata decisiva per affrontare l’epidemia in Italia, in particolare a Bergamo dove ha costruito un ospedale da campo. Intervista alla presidente Rossella Miccio: “Sono emersi i nodi di un sistema impreparato a un’epidemia di questo tipo”, su scala nazionale e globale

“In Sierra Leone durante l’Ebola c’è stata una fase in cui l’intero sistema ospedaliero del Paese era saltato, fra personale sanitario contagiato e il terrore delle persone di recarsi in ospedale. Per alcune settimane eravamo rimasti gli unici con una pediatria aperta in tutta la capitale Freetown”. Rossella Miccio è oggi presidente di Emergency, dove ha lavorato per vent’anni, gran parte dei quali nel coordinamento sul campo dei progetti dell’ong. Torna con il ricordo ai mesi trascorsi in Africa Occidentale fra 2014 e 2015. La peggiore epidemia di virus Ebola della storia, originata forse nei pipistrelli, presenta diverse assonanze con la pandemia di Covid-19 che sta attraversando l’Italia e il mondo. “Le abbiamo associate subito -spiega Miccio- per l’impatto enorme sul sistema sanitario ma anche sull’intero tessuto sociale ed economico. Naturalmente ci sono anche grandi differenze fra i due virus. Ebola è molto più letale rispetto al SARS-CoV-2 ma è anche più facile da identificare perché i suoi sintomi sono chiari, mentre il virus del Covid è subdolo: è assai più contagioso e meno riconoscibile. Ma le lezioni di Ebola sono state decisive per i progetti che abbiamo avviato in Italia per il nuovo Coronavirus”.

A Bergamo, epicentro dell’epidemia di Covid, Emergency ha contribuito alla realizzazione del nuovo ospedale da campo: 142 posti letto, di cui metà di terapia intensiva, al servizio dell’ospedale cittadino Papa Giovanni XXIII. In cosa vi è stata utile l’esperienza in Sierra Leone?
RM
Lo abbiamo disegnato coscienti di quanto sia cruciale la compartimentazione di luoghi, persone e oggetti. Bisogna avere percorsi ben distinti per ciò che è pulito e ciò che potrebbe essere contaminato: non devono sovrapporsi mai per evitare le infezioni incrociate. Inoltre tutte le indicazioni devono essere immediate e intellegibili: i messaggi confusi sono inammissibili in una situazione di emergenza. Sono protocolli d’igiene e di prevenzione semplici ma fondamentali: per molti versi è più importante un ospedale pulito che duecento posti di terapia intensiva. Inoltre, sono norme che andrebbero estese a tutti gli ambiti sociali e del lavoro nella fase di riapertura delle attività. E ci ha colpito che, quando abbiamo rilasciato in forma aperta le nostre linee guida operative per la sicurezza delle strutture sanitarie e di accoglienza, il ministero degli Interni abbia inviato una circolare alle prefetture suggerendo di scaricare i nostri protocolli perché potevano rivelarsi utili nella gestione dell’epidemia.

Che livello di preparazione avete riscontrato nel Paese di fronte all’epidemia?
RM Senza dubbio questo virus ha colto tutti di sorpresa anche perché le informazioni che ci erano arrivate dalla Cina, dove è sorta la pandemia, non si sono rivelate troppo coerenti con ciò a cui assistiamo in Occidente. Detto questo, dopo lo stupore iniziale, sono emersi i nodi di un sistema impreparato a un’epidemia di questo tipo. Innanzitutto, vent’anni di blocchi delle assunzioni nella sanità e di tagli ai posti letto ci hanno lasciati senza medici, infermieri e strutture. Un problema di fondo enorme, amplificato dalla grave carenza di dispositivi di protezione individuale, mascherine e camici che ancora fatichiamo a reperire. L’altro serio problema è che nello stesso periodo si è messa da parte tutta la medicina del territorio con il suo potenziale diagnostico e di assistenza capillare. E queste problematiche nazionali sono diventate ancora più evidenti in Lombardia, la regione di gran lunga più colpita dal Covid-19. Qui da tempo si persegue ciecamente una sanità a doppio binario, privato e pubblico, a vantaggio del privato. Con l’aggiunta che chi fa business nella sanità lombarda, attraverso il sistema di accreditamento, beneficia anche di soldi pubblici. Ma durante l’emergenza la sanità privata non è quasi pervenuta.

Quale piano immagina per fare sì che l’Italia sia pronta in futuro a reagire a simili epidemie?
RM Sarà banale ma innanzitutto occorre prepararsi prima, non si rimedia nel corso di un’emergenza. Avvisaglie di ciò che sarebbe potuto succedere le avevamo già avute con la Sars quasi vent’anni fa, ma non abbiamo colto l’occasione per adeguarci. Ora serve un investimento serio sul sistema sanitario pubblico, in tutte le direzioni di cui parlavamo. Bisogna sostenere la ricerca, in maniera costante. E si devono snellire alcune procedure di approvazione nel corso delle emergenze. Nei momenti di maggiore sconforto per le lungaggini burocratiche, mentre realizzavamo l’ospedale di Bergamo, mi sono trovata a ringraziare che questo virus non fosse Ebola, altrimenti ci saremmo trovati con un’infinità di morti in più. E poi occorre rivedere tutto il sistema di welfare, in una forma più inclusiva. È l’altro insegnamento di quest’epidemia: non possiamo fare distinzioni sul colore della pelle, sulla razza, sull’avere o meno i documenti. Il virus non discrimina: se vogliamo controllarne la diffusione, dobbiamo prenderci cura di tutti.

Fra i livelli territoriale, nazionale e sovranazionale quale ambito decisionale dovrebbe assumere più rilievo negli scenari di epidemia?
RM Penso da tempo che l’attuale ordine mondiale sia inadeguato a gestire le nostre vite globalizzate. E questa pandemia lo sta dimostrando una volta di più: ancorarsi alla sovranità nazionale, di fronte a un virus che non conosce le frontiere, è del tutto insensato. Purtroppo l’Organizzazione Mondiale della Sanità non può rilasciare altro che suggerimenti. Che sono fondati solo su ciò che le viene riportato, non potendo forzare gli Stati ad accoglierla. Come è successo con la Cina, che prima di fine gennaio non li ha fatti entrare nel Paese. Ma credo sarebbe cruciale, di fronte a questo genere di epidemie, che le indicazioni di base vengano definite in maniera centralizzata da un organismo sovranazionale e siano fondate su dati scientifici. Poi, certamente le realtà via via più connesse ai singoli territori potrebbero stabilire adattamenti delle regole generali.

Gli studiosi concordano che in futuro epidemie simili saranno più frequenti, agevolate dagli squilibri ambientali causati dall’attività umana. Ha fiducia che cominceremo a contrastarle?
RM Sì, abbastanza. In positivo durante questa epidemia mi sta colpendo il senso di solidarietà che ho visto emergere in tante persone normali. Forse questo momento di fragilità riattiva un senso della condivisione che pensavamo perduto dentro gli allarmi su una società che si incattivisce. Se sapremo estendere questa presa di coscienza, e insieme chiedere conto delle proprie scelte a chi ci governa, avremo buone ragioni per sperare.

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