Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Esteri / Intervista

In Brasile i ricchi hanno presentato il conto. Ma le destre possono fallire

Bolsonaro, Trump e Salvini portano avanti agende diverse accomunate dal “marketing politico” del capro espiatorio. Un’alternativa c’è ed è radicale. Intervista all’economista dell’Università di San Paolo, Laura Carvalho

Tratto da Altreconomia 215 — Maggio 2019
Laura Carvalho, economista dell’Università di San Paolo e autrice del volume “Valsa Brasileira” (letteralmente “Valzer brasiliano”)

“In Europa sono gli immigrati e le altre minoranze, in Brasile la corruzione: sono capri espiatori di comodo che permettono di consolidare una maggioranza regressiva. Tutto ciò che c’era di buono nell’economia è stato rovinato dal PT (il partito di Lula e Rousseff, ndr), la corruzione della sinistra è responsabile della crisi fiscale, della crisi economica. Questo è il mito che sta alla base dell’elezione di Jair Bolsonaro”. Laura Carvalho è una giovane economista dell’Università di San Paolo, che alla ricerca accademica ha associato una produzione divulgativa di successo. Nel suo libro “Valsa Brasileira” (letteralmente “Valzer brasiliano”), ha descritto i passi (di valzer: uno avanti, uno di lato, uno indietro) che hanno portato il Brasile alla crisi, prima economica, poi politica, con il golpe Temer e la successiva elezione di Bolsonaro, presidente autoritario e apertamente apologeta della dittatura.

Le abbiamo fatto alcune domande in occasione della partecipazione, a Milano, a “Rethinking capitalism”, iniziativa della Fondazione Feltrinelli.

Come siamo arrivati fino a qui?
LC La questione è che questi falsi colpevoli sono risposte facili ed errate a un deterioramento delle condizioni di vita che è invece reale. Ciò che ha facilitato l’ascesa delle destre è però anche ciò che le condannerà alla sconfitta: se i governi non riescono a porre fine alle sofferenze reali delle persone, queste li abbandoneranno con la stessa velocità con cui hanno dato il loro appoggio. Bolsonaro ha già ottenuto un record: è il presidente che ha perso popolarità più velocemente nella storia del Brasile.

La sinistra può quindi “sgranocchiare pop corn” godendosi lo spettacolo in attesa che arrivi il suo turno, come sostenuto da alcuni importanti esponenti politici italiani all’indomani delle elezioni del 2018 che hanno aperto all’attuale governo?
LC No. Anche perché un possibile esito è quello di un ulteriore aumento dell’astensione. Deve invece elaborare un’agenda progressista di cambiamenti radicali. Ciò che sta avvenendo all’interno del Partito democratico americano è un esempio in questo senso: occorre creare una narrazione populista di sinistra, attraverso slogan semplici e efficaci. Ad esempio, invece di dare la colpa ai migranti, si può individuare il nemico in quell’1% che si sta arricchendo alle spalle della maggioranza.

“Ciò che ha facilitato l’ascesa delle destre è però anche ciò che le condannerà alla sconfitta: se i governi non riescono a porre fine alle sofferenze reali delle persone, queste li abbandoneranno con la stessa velocità con cui hanno dato il loro appoggio”

Si dice che la sinistra abbia perso perché ha abbandonato le classi popolari.
LC Il caso europeo non è identico a quello americano ed è differente da quello brasiliano. I successi di Salvini, Trump, Bolsonaro sono accomunati dall’aggressiva strategia di marketing politico, da un simile uso dei social network. Ma non dimentichiamo che Bolsonaro, a differenza degli altri due, si è presentato con una piattaforma “ultra-liberista” e ha goduto dell’attivo sostegno della stampa, degli imprenditori, del mondo della finanza. E non sono stati i più poveri a farlo vincere, è stata la classe media: qui si sono registrati i più importanti spostamenti di voto rispetto alle elezioni del 2014. Naturalmente non si può nemmeno proporre una semplificazione opposta, di radicale differenza tra i vari Paesi: ad esempio, se si guarda alla composizione della classe media brasiliana, per educazione e livello economico si tratta di settori che corrispondono agli strati popolari dei Paesi avanzati. La risposta non è semplice.

E tuttavia queste destre, per quanto possano essere eterogenee, a livello internazionale sembrano fare fronte comune e rafforzarsi l’un l’altra.
LC È soprattutto Trump ad avere questo ruolo; può darsi che Bolsonaro in alcune occasioni aiuti gli altri governi di destra (come con il “caso Battisti” o con la recente visita in Israele, durante la quale ha provato a spiegare al mondo che il nazismo è stato un movimento di sinistra), ma il Brasile in realtà non è una potenza mondiale. L’effetto di queste mosse è soprattutto interno: più dannoso e più immediato. Basta pensare a come la Cina si sta infastidendo per la politica estera del nostro governo, e la Cina è il primo partner commerciale del Brasile.

Il presidente brasiliano Jair Bolsonaro ospite della Casa Bianca. Alle sue spalle Donald Trump, presidente degli Stati Uniti © Alan Santos/PR

La Cina è un Paese che sembra aver tratto benefici dall’assetto internazionale della “globalizzazione”. È possibile che anche altri ci riescano? O si tratta di un sistema che impedisce strutturalmente la realizzazione di un’agenda progressista? I Paesi emergenti hanno di fronte gli stessi problemi dei Paesi industrializzati?
LC In generale, tutti i Paesi sono accomunati dal medesimo problema di fondo: la globalizzazione spinge a una competizione verso il basso fatta di compressione dei salari per guadagnare competitività per le esportazioni, accompagnata dalla riduzione delle tasse per attrarre i capitali. Così aumentano le disuguaglianze, e non solo per effetto diretto: meno tasse significa anche meno spesa in educazione, ad esempio. È un sistema che in definitiva danneggia anche la crescita, a causa della stagnazione della domanda globale.

La coordinazione virtuosa tra Paesi rimane di difficile realizzazione, tuttavia qualcosa può essere fatto al livello del singolo Paese: il Brasile c’è riuscito per alcuni anni, fino al 2011. In quegli anni, si sono ridotte le disuguaglianze ed è aumentata la giustizia sociale; il problema è che non si è voluto andare a fondo del conflitto distributivo, i ricchi sono diventati ancora più ricchi e alla fine hanno presentato il conto.

“Il Brasile, così come l’Italia, non ha bisogno di puntare tutto sulle esportazioni. Per tutto ciò, naturalmente, il ruolo dello Stato è fondamentale, e va rilanciato”

C’è modo di sfuggire a questa competizione al ribasso?
LC Sì: fare concorrenza sulla qualità invece che sul prezzo. Per questo occorre investire sulla tecnologia, sulle infrastrutture, realizzare “missioni sociali” che coniughino aspetto economico e qualità della vita (educazione, fognature, elettricità: ricordo che in Brasile la maggioranza della popolazione non ha accesso ai servizi di base). Sarebbe anche un modo per stimolare la domanda interna: il Brasile, così come l’Italia, non ha bisogno di puntare tutto sulle esportazioni. Per tutto ciò, naturalmente, il ruolo dello Stato è fondamentale, e va rilanciato: nei Paesi emergenti così come in Europa.

E invece nel corso della crisi si è assistito a un’ulteriore riduzione dell’azione dello Stato: le politiche di austerità non hanno nemmeno ottenuto l’obiettivo per il quale erano nate e, oltre a riduzione della crescita, aumento delle disuguaglianze, riduzione della qualità dei servizi, hanno portato all’aumento del debito pubblico.
LC Questo si sapeva anche prima di metterle in atto: in accademia ormai c’è assoluta consapevolezza degli effetti negativi dell’austerità. Ma in realtà non c’è niente di tecnico, non stiamo parlando di economia: si tratta di una questione squisitamente politica, di un’agenda ideologica che ha come unico obiettivo la riduzione dello Stato. Così, anche in Brasile, grazie a questa agenda la crisi in corso è diventata la più grave e la più lunga della nostra storia.
Adesso, per fortuna, alcune cose stanno cambiando: il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale hanno iniziato a proporre politiche diverse, e alcuni Paesi, come il Portogallo, stanno promuovendo -almeno a parole- un’agenda alternativa. Il primo passo però è quello di togliere i folli vincoli istituzionali che sono stati approvati: in Brasile è stato inserito in Costituzione un tetto alle spese sociali che porterà a un progressivo e continuo peggioramento delle condizioni di vita. Tutto questo in un Paese che ha uno Stato sociale allo stadio embrionale; ma la questione del fiscal compact in Europa è del tutto analoga.

© riproduzione riservata

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.