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Commercio di armi: lo sguardo indipendente sulla spesa militare

Aude Fleurant guida il programma sui trasferimenti di armi e le spese militari del SIPRI - © flickr

Nato nel 1966, il SIPRI è un istituto internazionale con sede a Stoccolma impegnato in ricerche su conflitti, armamenti e disarmo. Intervista alla direttrice del programma sui trasferimenti d’arma, Aude Fleurant

Tratto da Altreconomia 205 — Giugno 2018

Aude Fleurant dirige il programma sui trasferimenti di armi e le spese militari del prestigioso Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI, sipri.org). La incontriamo nella sede centrale dell’Istituto, a Stoccolma, pochi giorni dopo l’uscita del loro ultimo rapporto sulla spesa militare. “Le spese militari globali si sono per lo più stabilizzate su livelli alti dal 2009, con piccole variazioni annuali in termini reali (0,3% in media) -spiega Fleurant-. Da quell’anno, la spesa militare si è ‘stabilizzata’ con livelli di spesa di circa 1,7 trilioni di dollari, il 18% in più rispetto alle spese militari nel 1988”.

Un “percorso” a tappe?
AF Ci sono state tre fasi principali nell’evoluzione della spesa militare dalla fine della Guerra Fredda: immediata diminuzione con lo smantellamento del Patto di Varsavia che portò a un calo delle spese militari del 30% tra il 1988 e il 1996; un significativo aumento (+68%) trainato da Paesi coinvolti nelle operazioni militari grandi e costose svolte in Iraq e Afghanistan, che comprendevano Paesi della NATO e delle coalizioni alleate agli USA; una fase, attuale, conseguente allo shock della crisi economica e finanziaria del 2008. Considerando la volatilità e l’incertezza che circonda le tendenze attuali, è difficile anticipare cosa aspettarsi nel prossimo futuro. Tuttavia, ci sono alcuni Paesi chiave da monitorare, poiché il loro peso nella spesa militare globale è abbastanza grande da cambiare la tendenza per tutti. Questo è in particolare il caso di Stati Uniti, Russia, Cina, India e Arabia Saudita. Naturalmente, anche gli Stati coinvolti nelle guerre devono essere osservati attentamente, soprattutto perché la trasparenza delle spese militari può essere un problema in situazioni di conflitto.

Quali sono, se esistono, i collegamenti effettivi tra produzione e commercio di armi?
AF Uno dei problemi principali che i Paesi produttori di armi devono affrontare è la propria capacità finanziaria di sostenere l’industria. I sistemi di armi sono molto costosi da sviluppare e produrre e rimangono in servizio per decenni; perciò l’industria rischia periodi con pochissimi ordini con conseguente rischio di chiusura. Ciò comporta una pressione verso l’esportazione sul mercato internazionale; tuttavia il numero di potenziali clienti per le armi è limitato ad altri ministeri della Difesa o agenzie equivalenti attraverso le importazioni e poiché l’industria degli armamenti è diffusa esiste una forte competizione per conquistare appalti. Ad esempio, negli ultimi anni è stata molto alta la competizione per la vendita di aerei da combattimento tra Stati Uniti, Francia, Svezia ed Airbus o Eurofighter a livello europeo: aziende che si sono “scontrate” in Brasile, Qatar, Belgio. Alcuni dei contratti conclusi con i Paesi problematici, in particolare l’Arabia Saudita, sono stati giustificati proprio con la necessità di sostenere l’industria degli armamenti.

“Il commercio di armi è davvero poco trasparente e con robusti sospetti di essere endemicamente incline alla corruzione” – Aude Fleurant

Quali sono le tendenze in questo comparto?
AF I trasferimenti di armi sono aumentati costantemente dalla metà degli anni 2000. Ciò significa che anche la domanda complessiva di armi è aumentata, in un contesto di guerra, tensioni e grandi programmi di modernizzazione. Il cliente più importante dell’industria delle armi è il ministero della Difesa dello stesso Paese in cui è basata. A seconda degli anni, le esportazioni possono rappresentare una quota significativa delle vendite di un’azienda, ma in media la maggior parte delle vendite proviene dal “cliente nazionale”. I maggiori produttori di armi sono per lo più Paesi dell’emisfero occidentale. Si potrebbe forse anche includere la Cina, ma la mancanza di dati per le società cinesi rende estremamente difficile includerli nella lista “Top 100” che elaboriamo al SIPRI. In tale classifica dominano gli Stati Uniti, che hanno sei società tra le prime 10 tra cui il più grande produttore di armi al mondo per vendite di armi, Lockheed Martin. Gli Stati Uniti sono seguiti dal Regno Unito (con BAE Systems), dalla Russia (United Aircraft e molte altre società), dalla Francia (Thales), da società di natura diffusa europea (Airbus e MBDA) e dall’Italia. Le aziende italiane in questa lista sono Leonardo (ex Finmeccanica, tra i primi 10) e Fincantieri. Questi Paesi sono anche tra i maggiori esportatori, verso un’ampia varietà di destinatari. Per quanto riguarda le aziende italiane, i principali destinatari per il periodo 2013-2017 sono gli Emirati Arabi Uniti, la Turchia e l’Algeria.

Molti analisti sono convinti che seguendo le linee commerciali degli armamenti si possano prevedere i principali conflitti. Che tipo di relazione è possibile trovare oggi tra spese militari, produzione e commercio di armi, conflitti e guerre?
AF Tutte le armi convenzionali sono pensate per essere usate ma ritengo che la relazione tra conflitti armati e armi non sia automatica. Ogni situazione è unica e la situazione reale è più complessa di quanto possano suggerire alcune semplificazioni. Il mercato delle armi si basa principalmente su un processo decisionale politico, sebbene spesso anche argomentazioni economiche (come il contributo al Pil e all’occupazione) siano presentate per giustificare il trasferimento di grandi sistemi d’arma. Ma la motivazione fondamentale esplicitata per sostenere l’acquisizione di armamenti è la sicurezza nazionale: le armi hanno lo scopo di affrontare una minaccia percepita per la sicurezza, che viene quindi definita in termini militari. Pertanto, le armi sono un fattore e una parte del conflitto, ma non l’unico.

1.739 miliardi di dollari, l’ammontare della spesa militare mondiale nel 2017. Dal 1999 al 2011 si sono susseguiti 13 anni di crescita, tra 2012 e 2016 anni “piatti” di spesa, fino al “più” 1,1% del 2017 (fonte: SIPRI)

Le decisioni relative all’acquisizione di armi possono essere basate su vari elementi: una percezione delle minacce più elevata, tensioni con Paesi vicini, il coinvolgimento in conflitti o la modernizzazione di attrezzature militari obsolete. A questo possiamo aggiungere alti livelli di corruzione, dal momento che il commercio di armi è davvero poco trasparente e con robusti sospetti di essere endemicamente incline alla corruzione. Un rafforzamento nel “procurement” militare nelle regioni che mostrano forti tensioni o sono in guerra costituisce sempre una preoccupazione importante. Ancora più allarmante è il fatto che negli ultimi tempi diversi Paesi produttori hanno fornito armamenti alle nazioni di queste regioni, contribuendo così a provocare una escalation di tensioni e conflitti in alcuni dei quali, penso in particolare allo Yemen, le parti coinvolte stanno violando il diritto umanitario. Nel permettere questo commercio molti dei grandi Paesi produttori di armi non si stanno conformando al Trattato sul commercio di armi (ATT), nonché -per quanto riguarda i membri dell’Unione europea- alla “Posizione comune” sull’esportazione di armi.

C’è uno spazio possibile per una agenda internazionale di disarmo, come continuamente proposto anche dal Segretario Generale delle Nazioni Unite Guterres?
AF La spesa militare è elevata, i trasferimenti di armi sono cresciuti costantemente per diversi anni e di conseguenza anche le entrate dell’industria delle armi sono aumentate. Sono in fase di avvio importanti programmi di modernizzazione delle armi, compresi gli arsenali nucleari. Questo sta accadendo in un contesto di forti tensioni ed alta percezione delle minacce, il che è preoccupante. C’è una chiara necessità di aprire canali diplomatici e di vedere come depotenziare tali dinamiche. Va ricordato che le recenti iniziative di controllo e disarmo non sono state pienamente attuate o sono state ignorate soprattutto dai Paesi occidentali. Tuttavia, in Europa, i sondaggi dimostrano che una parte significativa dell’opinione pubblica è contro i trasferimenti di armi agli Stati coinvolti nella coalizione saudita militarmente impegnata nello Yemen. In alcuni casi, i politici eletti con tale mandato hanno agito su questo sentimento e la società civile ha spinto a fermare i trasferimenti in Arabia Saudita. Ciò è accaduto, ad esempio, in Norvegia, Finlandia, Germania, Belgio (a livello regionale) e Paesi Bassi. Ciò potrebbe indicare che preoccupazioni di questo tipo sono condivise e ci sia dunque spazio per la diplomazia, in uno sforzo che dovrebbe certamente includere l’Onu. Il sentimento pubblico appena descritto dovrebbe essere utilizzato come trampolino di lancio almeno per una dibattito internazionale sui trasferimenti verso le regioni in conflitto e il loro impatto sui civili e sulla e sicurezza regionale e internazionale. Va poi notato come accordi specifici di divieto sugli armamenti (come per le mine anti-persona e le munizioni a grappolo) sembrano avere impatti positivi, quindi potrebbero essere un altro modo di procedere, sebbene ovviamente riguardino ambiti definiti e limitati.

Credo però che i prerequisiti fondamentali per qualsiasi successo in questa ottica siano dialogo e trasparenza. È importante assicurare il più possibile la conformità agli accordi e ai Trattati attualmente in vigore: non rispettare impegni presi è un bruttissimo segnale. Un’altra possibile traccia di lavoro è quella di monitorare più da vicino i nuovi sviluppi tecnologici con potenziale militare o di armabilità, come si sta facendo in ambito Onu relativamente alle armi completamente autonome (i cosiddetti “killer robots”). L’aiuto che posso fornire io, con il mio team al SIPRI, è fornire ai decisori politici dati e analisi indipendenti e affidabili. Per scegliere sulla base di elementi concreti e non di paure o meri interessi elettorali ed economici.

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