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Diritti / Reportage

L’integrazione sul campo. Il mais recuperato che assicura buoni frutti

Ad Asti, nella Villa Quaglina, due associazioni del territorio hanno promosso un progetto di accoglienza e cooperazione che coinvolge i richiedenti asilo attraverso l’agricoltura sociale e l’economia solidale

Tratto da Altreconomia 185 — Settembre 2016
Friday, Ebel e Silvester, i tre giovani nigeriani che quest’anno coltivano il mais "ottofile" a Villa Quaglina, ad Asti - Maurizio Bongianni

pochi chilometri di distanza dalla tangenziale che corre intorno ad Asti, nel verde delle colline adiacenti, c’è Villa Quaglina, una struttura che ha sempre svolto un ruolo importante nel mondo del sociale: in origine era un seminario, poi convertito a comunità per recupero di ex-tossicodipendenti, mentre oggi ospita i richiedenti asilo in attesa di permesso di soggiorno. I migranti che vengono accolti in questa cascina sono presi in gestione da due associazioni del territorio, il Piam Onlus Asti -iscritto al programma di accoglienza SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati)- e il Consorzio Co.al.a. inquadrato come Cas (Centro d’accoglienza straordinaria). Queste due realtà hanno dato vita a un progetto che combina cooperazione internazionale, valorizzazione dei prodotti locali e tutela dei migranti: sui terreni agricoli della Villa, infatti, i richiedenti asilo coltivano un’antica varietà di mais piemontese e producono polenta. Questi “profughi polentoni”, come scherzano i giornali locali, sono tre richiedenti provenienti dalla Nigeria che continuano un progetto iniziato un anno fa.

I semi utilizzati per il mais provengono da Nandino De Stefanis, anziano contadino di Antignano che ha conservato i semi del mais ottofile, varietà rossa, oggi presidio Slow Food. “Un anno fa abbiamo cominciato con il seminare una giornata di terreno”, racconta ad Ae Cesare Quaglia, imprenditore agricolo coinvolto dalle associazioni e portavoce del Comitato Pavia Asti Senegal, altra associazione che avvia progetti di cooperazione. Una “giornata” è un’unità di misura agricola tipicamente piemontese e l’origine del nome deriva dalla quantità di terreno arabile mediamente da un coppia di buoi in una giornata. “Abbiamo preparato il terreno e abbiamo seminato il mais con l’aiuto dei tre ospiti di Villa Quaglina dell’anno scorso. Erano ragazzi provenienti da Mali e Gambia che, dopo la semina, hanno continuato a ‘diserbare’ a mano, senza l’aiuto di pesticidi. Abbiamo raccolto il mais manualmente, sfogliato e sgranato le pannocchie, fatto essicare per poi portare tutto al mulino Cravero di San Martino Alfieri dove il mais è stato macinato ed è diventato polenta”. Il primo raccolto è andato bene: i 7 quintali di granaglia sono diventati tutti farina di mais venduta nel giro di un mese a conoscenti e amici delle associazioni. “E questo nonostante il prezzo al chilo fosse elevato”, spiega Alberto Mossino, gestore del Piam. “La polenta è stata venduta a 4,5 euro al chilo ma abbiamo ricevuto molte richieste, anche da pasticceri della zona, che non siamo riusciti a soddisfare. Così, a distanza di un anno, abbiamo deciso di sfruttare tutto il territorio a nostra disposizione, tranne un piccolo appezzamento per l’orto tradizionale, portando a cinque le giornate coltivate”. A questo giro sono altri i ragazzi che si alternano sui campi ma lo spirito è lo stesso, se non fortificato dall’esperienza dell’anno scorso. Tanto che, come spiegano i due, è in preparazione anche un canale di vendita online.

Alberto è deciso e motivato e a Villa Quaglina ha avviato addirittura i lavori per un laboratorio di trasformazione diretta -finanziato con i fondi della cooperativa- “che ci servirà anche per un altro progetto che stiamo preparando, ovvero la produzione di olio da semi di vinacciolo. I semi dell’uva, si sa, sono un scarto ma se recuperati a modo si dà origine a un olio molto pregiato dal punto di vista nutrizionale. E poi le uve sono nostre provenienti direttamente da un vitigno recuperato e composto da 700 nuove viti”.

I punti forti sono due: “Il primo -racconta Cesare- è che la scelta del mais locale è un po’ volersi legare alle radici, alle tradizioni del territorio che si stanno perdendo, rafforzando una risorsa agricola che unisce due pezzi di mondo, perché il mais lo coltiviamo sia qui sia in Africa. Il secondo è lo spirito di collaborazione che si crea: dopo aver prodotto la farina abbiamo organizzato una polentata con amici e sostenitori, raccogliendo più di 700 euro. Questi fondi sono stati destinati ai progetti di cooperazione in Senegal. Quindi non solo solidarietà ma un esempio pratico di come i migranti aiutino pure la cooperazione allo sviluppo”.

I progetti nascono da esigenze pratiche. I lavoratori che si stanno alternando alla produzione di polenta erano contadini anche nella loro terra d’origine e son contenti di imparare tecniche agricole diverse, magari più sofisticate, e di venire a conoscenza di una stagionalità differente. In attesa di conoscere il loro destino relativo alla loro domanda di protezione, gli ospiti della struttura lavorano già: la cooperativa ha inquadrato decine di persone della struttura con un tirocinio retribuito (circa 300 euro al mese per 3 ore e mezza al giorno per 5 giorni). E non solo nei lavori agricoli, ma anche nelle attività di economia della casa: c’è l’addetto alla legna, chi fa il muratore e chi ha ristrutturato parte della cascina, chi si occupa delle riparazioni e chi mantiene il verde. Tutte queste mansioni sono state rese possibili grazie all’aiuto di imprese locali coinvolte: dagli enologi del Consiglio nazionale ricerche (Cnr) di Asti, alle imprese edili, dai ristoratori ai pizzaioli. Proprio un giovane contadino che l’anno scorso lavorava sul mais ottofile, oggi lavora presso una delle più grandi cantine di vino delle Langhe. “Ovviamente non ci sono solo belle storie» precisa Mossino. “Tante richieste di asilo vengono rigettate sprecando tempo e risorse investite nel futuro di queste persone. Abbiamo pure provato a legare le esperienze lavorative che avviamo con i nostri ospiti con la richiesta di permesso ma, nonostante il lungo viaggio tra deserto e mare, le loro storie non hanno convinto gli esaminatori”. Mossino non demorde e continua a coinvolgere i migranti in attività pratiche: al momento è in corso di realizzazione una ciclofficina “affinché tutti abbiano una bicicletta per il trasporto personale”. 

Mentre Cesare e Alberto raccontano, Friday, Ebel e Silvester, i tre giovani nigeriani che quest’anno coltivano il mais ottofile, stanno annaffiando le angurie nell’orto. Ebel è il più loquace: racconta che il mais era già noto nella sua cucina e nei piatti tradizionali del suo Paese. Anche in Nigeria, infatti, si prepara una sorta di polenta, chiamata diversamente. Ebel è felice di essere arrivato in Italia perché, spiega, è il Paese che stava cercando. Chissà se il piacere sarà reciproco e se l’Italia -le commissioni territoriali e i tribunali in caso di ricorso- gli concederà la protezione e quindi il permesso di soggiorno. Ebel non può saperlo ma si limita a concentrarsi sul presente: quel che è sicuro che anche quest’anno l’orto darà i suoi frutti.

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