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Infrastrutture africane, la loro storia è ora un’arma di difesa dallo sfruttamento neocoloniale

© João Silas - Unsplash

In Africa sono in corso importanti progetti di sviluppo infrastrutturale. Le dinamiche socio-economiche, però, presentano tratti neocoloniali e le macrozone di investimenti danno conto di una spartizione tra blocchi. Una ricerca accademica presentata al Politecnico di Milano ha messo in luce questa “spinta”, indagando la conservazione e il reimpiego delle opere del periodo coloniale italiano

A quasi 14 anni di distanza dal lancio del progetto “Let’s reclaim history”, avviato dall’Università Sapienza di Roma e portato anche all’attenzione di atenei internazionali, il riordino del materiale d’archivio sul periodo coloniale italiano sta contribuendo a delineare un modello di gestione consapevole e sostenibile dei territori più fragili. L’obiettivo finale, infatti, consiste nel fornire supporto alla conoscenza del patrimonio che ha caratterizzato la strutturazione moderna degli Stati africani, evitando che la rinnovata corsa alla creazione di infrastrutture cancelli non solo testimonianze e legami comunitari ma imponga strategie di sviluppo non al servizio dei loro interessi. Come confermato anche negli ultimi studi della Nepad (New Partnership for Africa’s Development, l’agenzia di sviluppo dell’Unione Africana), il continente potrebbe divenire entro il 2030 il primo mercato per investimenti internazionali, tenuto conto che il 43% della sua popolazione apparterrà alla classe media ed alta, con una prevista impennata dei consumi dal valore di circa 2,5 trillioni di dollari.      

“Sei delle economie a più alto tasso di crescita al mondo sono oggi in Africa -spiega Ibrahim Mayaki, amministratore delegato di Nepad- ma al tempo stesso qui si trovano anche sette delle dieci economie più diseguali. Purtroppo si parla sempre e solo di un lato della medaglia. Se guardiamo ai coefficienti che misurano la distribuzione del reddito e della spesa per consumi tra individui o famiglie, l’Africa risulta il continente col maggior tasso di diseguaglianza, aggravato oltretutto dal fatto che il 75% della sua popolazione è rappresentata da under 25”. Senza nuove politiche di inclusione, intese come creazione di posti di lavoro per giovani e facilità d’accesso ai servizi pubblici, la continua spinta allo sviluppo di infrastrutture rischia di vanificare qualsiasi obiettivo di stabilità e prosperità prospettato dalle agende per il continente. La Tunisia, per i ricercatori della Nepad, è forse il caso più emblematico: Paese lodato per il suo buon livello di trasporti, per la più alta penetrazione in Africa di informazione e comunicazione tecnologica, così come per la disponibilità di porti, aeroporti e produzione agricola, oltre che per il livello di educazione femminile, è di fatto imploso in pochi anni.

A un livello di lettura macroscopica, però, sembra proprio sia il mancato sviluppo delle infrastrutture a comportare effetti penalizzanti sulla popolazione: nella ricerca “Lifelines: the Resilient Infrastructure Opportunity”, prodotta dalla Banca Mondiale nel 2019, il 38% degli africani risulta privo di accesso all’elettricità e la penetrazione di Internet a livello continentale è inferiore al 10%. Questa mancanze, aggravate dalla bassa qualità di strade, ferrovie e porti, sono considerate le principali cause dei maggiori costi dei beni commerciati in Africa, superiori dal 30 al 40% rispetto al loro valore reale. Ogni anno, conseguentemente, il tasso di crescita economica nazionale subirebbe un riduzione media del 2%, mentre quello di produttività degli Stati addirittura del 40%.

“Per correggere questi squilibri -osserva Linus Mofor, responsabile Affari Ambientali per l’African Climate Policy Centre- occorrono finanziamenti ai governi africani tra i 130 e i 170 miliardi di dollari all’anno (a fronte di un budget effettivo fra i 68 e 108 miliardi), anche perché ben 15 degli Stati del continente non raggiungono neppure il 10% degli obiettivi di sviluppo sostenibile previsti dall’Agenda 2030 dell’Onu per le infrastrutture. Eppure, già un tasso del 25% contribuirebbe a soddisfare più della metà dei goals globali, inclusa la riduzione della povertà, della disoccupazione e delle diseguaglianze”. La creazione di infrastrutture, da un punto di vista di mera accettazione del libero mercato come unico modello di sviluppo, viene perciò considerata l’ossatura indispensabile per un’economia in salute.

Dietro la retorica dello sviluppo, per quanto “sostenibile”, continua però a celarsi una sorta di neocolonialismo. A mettere in guardia dai rischi di questa “inevitabile” spinta è una ricerca di ampio respiro presentata al Politecnico di Milano da Domenico Patassini, professore di Cultura della valutazione presso l’Università IUAV di Venezia, in occasione del seminario “Infrastrutture e colonizzazione. Il caso africano tra heritage e sviluppo”. Uno sguardo panoramico sui più importanti progetti di sviluppo in corso nel continente aiuta infatti ad evidenziare dinamiche socio-economiche pericolosamente affini a quelle che, sul finire dell’Ottocento, scatenarono la famigerata “Scramble for Africa”. “Solo nell’area del Golfo di Guinea -rileva Patassini- sono stati avviati lavori di costruzione di una rete ferroviaria di oltre 3mila chilometri che, dal Ghana, corre sino alla Nigeria, risalendo però sino al Niger e al Burkina Faso. Analogamente si stanno mettendo in connessione Kenya, Uganda e Rwanda, attraverso il Gauge Railway Network. I piani di sviluppo appaiono molteplici anche per tipologia: è stata prevista la costruzione di almeno quattro mega cities continentali (Tatu City e Konza Technology City in Kenya, la Cité-du-Fleuve nella Repubblica Democratica del Congo, Diamniadio Lake City in Senegal), una gigantesca area infrastrutturale di mercato a Lagos, chiamata Jankara, mentre ovunque vengono aperte ‘zone economiche speciali’ per fare dell’intero continente una piattaforma di mercato unificata, seguendo una cardinalità che non può non destare sospetti. L’Africa risulta oggi divisa in quattro macrozone di investimenti: il Maghreb, l’area del Golfo di Guinea, il Corno d’Africa e l’Africa Australe, con una cosiddetta ‘buffer zone’ nel centro. Il controllo dei capitali di ogni macrozona ha precisi referenti internazionali, quasi fosse stata tacitamente concordata una spartizione fra Stati Uniti e blocco Occidentale da una parte, Paesi del Golfo dall’altra, oltre a Cina, India e Corea”.

L’aspetto meno indagato, ma non per questo meno deleterio nella creazione delle nuove infrastrutture, va al di là della valutazione generale degli impatti socio-ambientali. Riguarda infatti la quasi sistematica rimozione delle testimonianze dei precedenti piani territoriali, in funzione dei quali i Paesi africani sono riusciti a maturare una consapevolezza di sviluppo alternativa alle politiche della globalizzazione. Fenomeno che uno studio condotto sulla trasformazione dell’eredità coloniale del nostro Paese ha permesso di inquadrare. Grazie alla collaborazione di Susanna Bortolotto, Nelly Cattaneo e Renzo Riboldazzi dei Dipartimenti di Architettura, Studi Urbani e di Meccanica del Politecnico di Milano, i Paesi africani più legati all’Italia hanno infatti scelto di conservare e reimpiegare le infrastrutture create in periodo coloniale con l’obiettivo di contrapporsi al processo di “deterritorializzazione” prodotto dalla sostituzione del vecchio con il nuovo. Un approccio che apre scenari di collaborazione internazionale “innovativi”, soprattutto per quanto riguarda la Libia, l’Etiopia, l’Eritrea e la Somalia, ma in grado di coinvolgere tutti quei territori in cui si sono intrecciate le storie di comunità differenti.

“Nelle ricerche e nelle inchieste condotte nei Paesi in esame -chiarisce Maria Spina, architetto ed esperta in cooperazione dell’Università di Camerino- è emersa a sorpresa una ricostruzione degli eventi ambivalente, soprattutto per quanto riguarda la Somalia, la meno ‘sviluppata’ delle colonie italiane e sotto nostra ‘gestione’ sino al 1960. Gli anziani ricordano ancora la segregazione, i maltrattamenti e la durezza del lavoro cui erano sottoposti, cause che non di rado determinavano la fuga dagli insediamenti italiani; al tempo stesso riconoscono però che il coinvolgimento nella costruzione delle infrastrutture ha contribuito a formare un senso di comunità, rivelatosi poi fondamentale per opporsi allo smembramento territoriale delle politiche di decolonizzazione”.

Il villaggio utopico-agricolo fondato a Giohar dal Duca degli Abruzzi, esteso per quasi 25mila metri quadrati lungo il corso del fiume Wabi Shebeele (a circa 90 chilometri di Mogadiscio), non venne ad esempio distrutto come “simbolo” dell’occupazione ma riadattato per coltivazioni che potessero permettere alla Somalia di mantenere un’economia di sussistenza, dopo che venne abbandonata dall’Italia senza risorse di formazione e professionalizzazione. Non a caso restò attivo almeno sino agli anni 90, quando la guerra civile lo fece cadere sotto l’area di controllo del movimento Al-Shabaab e di esso non se ne seppe più nulla. “Anche la ferrovia Massaua-Asmara, che sino al 1975 permetteva di superare agilmente il dislivello di 2.326 metri tra la costa e l’altopiano tigrino -aggiunge Nelly Cattaneo, dottoressa in Conservazione dei beni architettonici- si è rivelata utile al popolo eritreo per organizzare la resistenza all’occupazione etiope. Il suo armamento fu infatti sfruttato per i fini più diversi nella lotta di liberazione. Vinta la guerra, nel 1994 il popolo ne ha fatto un simbolo di unità nazionale, avviando la sua ricostruzione con sole risorse interne”. Dopo il riconoscimento di Asmara come Patrimonio Unesco, lo stesso titolo potrebbe ora essere attribuito a Massaua e alla sua ferrovia (paesaggisticamente equiparabile a quella più famosa del Trenino Rosso del Bernina, anch’essa costruita da italiani). Per Alessandro Raffa, docente a contratto del Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano, una funzione simile è stata attribuita anche alla Litoranea di oltre 1.800 chilometri che, dal 1937, unisce Tripoli a Bengasi, in Libia. “Già con la salita al potere di Gheddafi, la strada fu utilizzata per omogeneizzare le distanze culturali e socio-economiche fra le due regioni, sfruttando anche il fatto che fosse stata costruita con l’intento di favorire il turismo coloniale e l’occupazione di mini unità agricole di popolamento. Non dobbiamo stupirci, allora, se i tentativi di dialogo fra i due blocchi in cui il Paese si è spezzato facciano di nuovo riferimento al ripristino della Litoranea come arteria vitale per la Libia”. Oggi recupero e valorizzazione dell’esistente non sono più solo una formula ridondante da aggiungere a piani “sostenibili” di governo dei territori ma un reale strumento di tutela della progettualità e di resistenza alla cancellazione della memoria dei popoli.

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