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Diritti / Intervista

“Indietro non si torna”: le storie degli attivisti del movimento Lgbtq in India

Il Pride a Nuova Delhi in India nel 2014 © Andrea De Franciscis

In “No going back” la giornalista Maria Tavernini ripercorre la storia e i volti del movimento indiano per i diritti Lgbtq. Un racconto corale su una giovane generazione che si batte per vedere riconosciuta la propria identità. Sullo sfondo un Paese stretto da una deriva autoritaria

Sambhav è il punto di riferimento della comunità Lgbtq di Nuova Delhi. Attivista, la sua abitazione è diventata negli anni un rifugio per giovani queer minacciati, scappati di casa, abbandonati dalle loro famiglie. In quelle stanze trovano sostegno e un luogo sicuro dove essere ascoltati e passare la notte. Le parole e l’esperienza di Sambhav sono il filo conduttore delle storie raccontate dalla giornalista Maria Tavernini in “No going back” (Prospero editore, 2021), saggio che ripercorre i volti e le battaglie per i diritti Lgbtq in India. L’autrice presenta una narrazione a più voci che ha il merito di ricostruire l’evoluzione storica, legale e sociale di chi combatte per il riconoscimento dell’identità delle persone queer sullo sfondo di un Paese in rapida trasformazione, anche dettata dalla deriva autoritaria del governo di Narendra Modi. “Ho incontrato Sambhav nel 2013. Mi ha aperto la porta del suo mondo introducendomi alla comunità per cui è una pietra miliare. Lo era anche sua nonna, un’icona del movimento Lgbtq di Nuova Delhi. Forte e coraggiosa”, spiega Tavernini, collaboratrice di Altreconomia. “Nella pandemia da Covid-19 le attività del movimento si sono concentrate sul sostegno ai segmenti più fragili, fortemente colpiti dalle misure prese per il contenimento del contagio”.

Il titolo del libro è “No going back”. A che cosa fai riferimento?
MT È lo slogan usato durante le manifestazioni del 2013, anno in cui la Corte suprema indiana ha ribaltato una precedente sentenza del 2009 che aveva depenalizzato l’omosessualità rendendo, nuovamente, le relazioni tra persone dello stesso sesso un crimine equiparato alla zoofilia e alla pedofilia. Il movimento Lgbtq ha fatto sentire la sua voce per affermare i diritti della comunità al grido di “No going back”. Non si torna indietro a una legge di epoca coloniale del 1861, la Sezione 377 del codice penale, che definiva l’omosessualità un atto “contro natura” e prevedeva pene detentive fino a dieci anni. Il periodo tra il 2013 e il 2018 è stato quello delle forti mobilitazioni collettive fino al 2018 quando la Corte suprema ha depenalizzato i rapporti omosessuali con una sentenza storica, dopo una battaglia legale durata 17 anni. La prima petizione contro la Sezione 377, infatti, risale al 2001.

Che cosa ha rappresentato la sentenza della Corte suprema?
MT Gli attivisti intervistati hanno sottolineato come si sia trattato di un passaggio fondamentale, anche se molto poco è cambiato nella vita di tutti giorni. Uno dei cambiamenti principali è stato che le persone Lgbtq non hanno più paura di essere denunciate. Ma ci sono ancora dei limiti: la sentenza ha legalizzato i rapporti privati tra adulti consenzienti. Bisogna inoltre riflettere sul fatto che la depenalizzazione non implica l’automatica accettazione sociale dell’omosessualità. La lunga criminalizzazione ha permeato le istituzioni, le famiglie, le forze dell’ordine. Il processo per la reale inclusione e accettazione è ancora lungo: per questo molti attivisti, in particolare quelli anti-casta, puntualizzano che ora è necessario parlare dell’inclusione delle minoranze sessuali e delle persone transgender, a partire dal lavoro e dall’educazione. Nel febbraio 2021 il governo centrale si è pronunciato contro la legalizzazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, in risposta alle numerose petizioni presentate dagli attivisti e dai movimenti. Non sorprende in un Paese in cui il 90% dei matrimoni sono combinati.

Nel tuo libro parli di una generazione cresciuta nell’epoca della connettività digitale. Qual è stato il ruolo dei social per il movimento Lgbtq?
MT In India il digitale ha ricoperto una funzione fondamentale per chi si identifica come queer ed è cresciuto all’ombra della legge coloniale che lo criminalizzava. Il divieto ha favorito la nascita di chat e app per incontri online, uno spazio percepito come più sicuro rispetto a quello fisico. Ha permesso di creare luoghi di confronto e connessioni anche superando i confini nazionali. La rete ha rappresentato un’ancora di salvezza per molti giovani queer indiani.

In India gli attivisti Lgbtq sostengono anche altre rivendicazioni accanto a quelle tradizionali del movimento? Si può parlare di un movimento intersezionale?
MT Lo è, soprattutto nel contesto indiano. La battaglia Lgbtq è stata il luogo di incontro di varie minoranze oppresse. Ci sono attiviste femministe, transgender, dalit (gli “oppressi”, un gruppo sociale tradizionalmente connesso ad attività considerate “impure”), adivasi (i popoli tribali) e musulmani. Riconoscono di essere sottoposti alla stessa forma di oppressione che è anche patriarcale e brahminica. È interessante sottolineare come queste forze abbiano dato il loro appoggio anche ad altre rivendicazioni. È il caso delle proteste nel 2019 contro la legge che ridefiniva i criteri della cittadinanza e ora del sostegno dato a chi si batte contro la riforma agraria del governo Modi. Questo avviene sullo sfondo di una deriva autoritaria che sta minando le istituzioni democratiche con il governo nazionalista che ha messo in atto una capillare e mirata repressione arrestando accademici, giornalisti e attivisti. Inoltre la destra hindu è tradizionalmente omofoba e anche se negli ultimi anni si è assistito a un ammorbidirsi delle sue posizioni verso le minoranze sessuali, è un cambiamento strategico, di facciata. E il radicalizzarsi del discorso politico si ripercuote anche nell’ambito del movimento queer.

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