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Diritti / Intervista

Inchiesta sul lavoro sociale, tra smantellamento del welfare e criminalizzazione delle fragilità

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Nel volume “Non facciamo del bene” Andrea Morniroli e Gea Scancarello affrontano le difficoltà e le trasformazioni del lavoro sociale ed educativo, nel pieno di una stagione politica che punisce la povertà e spoliticizza la promozione dei diritti. Mettendo gli uni contro gli altri. “Per anni abbiamo pensato che bastasse essere dei bravi tecnici per fare il nostro mestiere -spiega Morniroli-, invece dobbiamo reinventarci”

Trabocca di storie e di riflessioni il libro “Non facciamo del bene. Inchiesta sul lavoro sociale tra agire politico e funzione pubblica” di Andrea Morniroli e Gea Scancarello, pubblicato a marzo da Donzelli, in cui gli autori propongono una via d’uscita dalla crisi della cooperazione sociale stretta oggi tra lo smantellamento del welfare e la criminalizzazione delle fragilità. Ne abbiamo parlato con Andrea Morniroli, cooperante e co-coordinatore del Forum disuguaglianze diversità.

Morniroli partiamo da una vostra frase iniziale: il lavoro sociale ed educativo o è politico o non è, e questo è innanzitutto un libro politico. In che senso?
AM
Credo che oggi chi fa un lavoro sociale è costretto a navigare in una sorta di tempesta perfetta: da un lato ci sono dei processi di criminalizzazione delle povertà e delle fragilità. Dall’altra parte abbiamo delle situazioni in cui molto spesso lo Stato si limita ad un welfare contenitivo degli scarti, come avrebbe detto papa Francesco. Pensa al fatto che stanno smantellando il Sistema di accoglienza e integrazione (Sai) dei Comuni e stanno investendo sui Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) dove fondamentalmente il tuo compito è contenere le persone. In questa tempesta perfetta se rimani nel solco della pura professionalità hai due strade: o sei colluso e partecipi alla gestione di questo contenimento o vieni buttato fuori. L’unico antidoto possibile è ritrovare un legame stretto con le nostre origini e quindi fare sì impresa sociale ma col meccanismo della solidarietà, della tutela e della promozione dei diritti recuperando la dimensione politica e culturale da cui sei nato. Altrimenti sei costretto a rintanarti nei fortini dove “faccio il mio dovere, lo faccio anche magari bene e riduco un po’ i danni”, ma non hai più un impatto sul contesto.

Nel libro lo scrivete chiaramente: “Gli operatori sociali hanno spesso perso la consapevolezza del proprio agire”. C’è un problema di disorientamento interno al mondo della cooperazione?
AM
Sì, sicuramente, nel senso che questi processi sono stati anche favoriti da una sorta di complicità consapevole o meno, di parte del nostro mondo. Per anni abbiamo pensato che bastasse essere dei bravi tecnici per fare il nostro mestiere. Dopodiché non ci siamo accorti che qualcuno smantellava attorno a noi la cultura da cui eravamo nati, in cui basavamo il nostro lavoro. Nel libro scriviamo però che ci sono tanti operatori e operatrici che continuano a mantenere questa originalità e questo equilibrio. Il problema è che questa consapevolezza è più presente alla base rispetto ai vertici. Spesso le grandi organizzazioni che dovrebbero rappresentare il nostro mondo sono ancora rintanate dentro una logica parasindacale o tecnicista. Per dirti nell’ultimo mese siamo stati invitati da una decina di piccole cooperative chiedendo degli interventi sulla dimensione politica del lavoro sociale. Chi sta sul terreno si rende conto di questo.

Voi sostenete di uscire della pura gestione -definita con la formula “spazzini del capitalismo”- per diventare inventivi e propositivi. Come si concilia questo con gli equilibri di bilancio?
AM
La mia cooperativa Dedalus ha 80 soci lavoratori, nell’ultimo anno abbiamo aumentato il fatturato, abbiamo aggiunto dieci soci e ci siamo rifiutati di gestire i Centri di accoglienza straordinaria (Cas), perché i numeri delle persone accolte e i tipi di capitolato non avrebbero garantito la qualità né dell’accoglienza né del lavoro delle lavoratrici e dei lavoratori. Come abbiamo fatto? Abbiamo provato a ritrovare forme inventive di fare impresa e quindi, per esempio, abbiamo affrontato nuovi terreni: i processi di rigenerazione urbana, la ricerca di cultura e bellezza, stringendo nuove alleanze, non soltanto con i soggetti pubblici ma con gli operatori culturali o il mondo dell’arte. Secondo me quella è anche l’unica maniera per garantire la tua impresa. Perché altrimenti siamo costretti a scomparire, ci mangiano i grandi soggetti, tipo Medihospes, la società (cooperativa sociale, ndr) che gestisce i centri italiani in Albania. Quando, per esempio, il Comune di Napoli paga con 16 mesi di ritardo, loro hanno le spalle coperte, mentre un’altra cooperativa salterebbe. Se tu vai in giro per l’Italia, soprattutto al Sud, vedrai che le cooperative che riescono a resistere meglio sono quelle che in qualche maniera non hanno perso questo equilibrio.

E la politica in tutto questo? Qual è l’atteggiamento prevalente?
AM
In generale non ci sono segnali di politiche lungimiranti e coraggiose da parte del pubblico. Non c’è la stessa classe dirigente che ha permesso lo svuotamento dei manicomi e le innovazioni che sono succedute e con cui noi siamo cresciuti. La classe politica oscilla tra due atteggiamenti: o la delega della propria responsabilità o “io decido cosa si deve fare, per quante ore, in che forma faccio il bando e tu esegui”. Non c’è più quell’integrazione virtuosa in cui i nostri servizi sono nati e si sono sviluppati. Poi sui territori come sempre trovi una situazione molto eterogenea, i contesti migliori sono concentrati spesso nei Comuni medi e piccoli perché lì è più facile anche provare a inventare rispetto alle grandi città.

Ad un certo punto del libro mostrate che il 20% degli italiani è pro accoglienza, il 20% è cattivismo puro e il 60% si dimostra agnostico e scrivete: “La sfida è recuperare quel 60%”. Ma così non attribuite un’eccessiva responsabilità politica alla cooperazione sociale?
AM
Evidentemente hai ragione, una volta su quel 60% di cittadini agiva la politica, c’erano i corpi intermedi. Adesso quella politica non c’è più, allora questo spazio rimane vuoto e molto probabilmente è difficile che da sola la cooperazione possa spostare quel 60%. Dopodiché mi chiedo: ma qualcuno che lavora per tutelare e promuovere i diritti come può pensare di riuscirci se le persone che lavorano con noi, quando sono usciti dai servizi d’accoglienza, trovano una comunità ostile? Noi non possiamo non porci il problema di parlare anche con gli incattiviti. E dobbiamo farlo in maniera furba, cinica se vuoi, cinicamente positiva. Bisogna far capire alle comunità locali che il nostro lavoro non è soltanto quello della sfiga ma un lavoro che, ad esempio, consente anche di risparmiare economicamente, perché siamo convenienti. Faccio un esempio: se la mia cooperativa riceve 120mila euro all’anno per fare riduzione del danno e accompagnamento sanitario a Piazza Garibaldi a Napoli e se con quel lavoro ogni anno raggiungiamo circa mille persone e se soltanto il 5% di quelle mille persone non prende l’Hiv/Aids il sistema sanitario regionale pubblico risparmia 1,3 milioni di euro. Quale altra politica pubblica con un investimento di 120mila euro ti fa risparmiare 1,3 milioni di euro?

Ci sono dei bellissimi passaggi nel libro in cui delineate la nuova professionalità necessaria degli operatori, parlate della necessità di “innescare il protagonismo delle persone accolte”, di “ribaltare la rassicurante scrivania per lasciare spazio alla scoperta”. Come perseguirla questa professionalità?
AM
Oggi il lavoro sociale va riscoperto ritrovando le modalità con cui siamo nati per ridefinire la professionalità sociale. Noi “vecchi” i primi anni lavoravamo in maniera un po’ ibrida, a volte anche pagando il prezzo di un eccessivo carattere militante. Però in quell’eccesso tu hai trovato nuove forme, ti sei inventato funzioni, hai inventato servizi, hai costretto, o eri costretto dal pubblico, a reinventare, a sconfinare, a ribaltare. Penso che oggi ci sia bisogno di questo, creando un contesto che consenta questa elasticità. Non possiamo fare altrimenti: quando vai in un qualsiasi luogo sociale trovi problemi che non ti aspetti: in una fila dalla mensa Caritas oggi trovi il tossico, il senza fissa dimora, ma anche l’operaio che va a mangiare perché il suo lavoro non gli basta, trovi il padre separato, e questi due sono incazzati neri con il tossico perché è davanti alla fila. Non ci sono situazioni standard e non ci sono risposte standard. Dobbiamo reinventarci, sennò non possiamo fare altro che contenere.

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