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Approfondimento

In Veneto i Pfas presenti anche negli alimenti. Ma la Regione è rimasta immobile

Le “Mamme No Pfas” hanno ottenuto i risultati dei rilevamenti effettuati dalle autorità sanitarie tra 2016 e 2017 su diversi cibi: i livelli di concentrazione di sostanze perfluoroalchiliche sono allarmanti. Ma il monitoraggio è fermo a quattro anni fa. Intanto il 30 settembre si è svolta la terza udienza del processo ai manager della Miteni

Alcune attiviste del gruppo "Mamme No Pfas" davanti alla Corte d'Assise di Vicenza dove si sta svolgendo il procedimento penale contro l'azienda Miteni

I 350mila cittadini contaminati nelle province di Vicenza, Padova e Verona sanno che i Pfas non si trovavano “solamente” nella falda acquifera ma anche nei prodotti alimentari coltivati o derivanti dal bestiame allevato nella zona rossa. A confermarlo sono i risultati dei rilevamenti effettuati, tra il 2016 e il 2017, su un campione di oltre 1.200 alimenti. “Nonostante livelli allarmanti di concentrazione delle sostanze perfluroalchiliche (Pfas), la Regione non ha fatto nulla. Un immobilismo preoccupante: spesso sembra che in questa battaglia non siamo tutti dalla stessa parte” commenta Cristina Cola, parte delle “Mamme No Pfas”, un gruppo attivo nelle province coinvolte che da anni combatte per ottenere trasparenza e risposte concrete dalle istituzioni.

L’accesso ai dati avviene dopo un lungo braccio di ferro con la Regione che si è concluso con la sentenza del Tar del Veneto dello scorso 8 aprile 2021 che ha accolto i ricorsi presentati dalle “Mamme no Pfas”. Fino all’ultimo, però, le istituzioni hanno tentato di non trasmettere i dati. “Ci hanno attaccato dicendo che non potevano fornirli perché noi pretendevamo di avere i dati sensibili delle aziende e dei produttori -continua Cola-. Da parte nostra non è mai arrivata una richiesta simile. Non ci interessa. I produttori sono vittime come noi: spesso sembra che in questa battaglia non siamo dalla stessa parte”.

L’arrivo dei dati si è tradotto in una vittoria amara. Al gruppo di attiviste sono stati infatti consegnati elementi incompleti rispetto a quelli contenuti nel “Piano di campionamento degli alimenti per la ricerca di sostanze perfluoroalchiliche” realizzato dall’Istituto superiore di sanità su commissione della Regione Veneto tra il 2016 e il 2017. Nonostante la mancanza di gran parte dei rilevamenti, tra cui quelli effettuati sul pescato -una delle fonti più importanti-, il gruppo di attiviste in collaborazione con Greenpeace ha effettuato delle elaborazioni e una mappatura dei dati, pubblicati in un report,  evidenziando alcune “criticità lampanti”.

“Innanzitutto, non si capisce quale metodo abbiano utilizzato -spiega Cola-. Abbiamo contattato degli esperti per capirlo che contestano la decisione della Regione di aver analizzato gli alimenti tipici della dieta media stimata per l’area Nord-Est. Sarebbe stato necessario calibrare lo studio sulle abitudini alimentari dei residenti in modo da avere una stima più dettagliata e reale”. Secondo le “Mamme No Pfas” non risulta che siano state analizzate alcune importanti matrici di produzione diffusa in zona: spinaci (solo un campionamento effettuato), radicchio (solo un campionamento effettuato), kiwi, meloni, angurie, grano (è stato analizzato solo un campione di farro), soia, mele, altri vegetali a foglia larga.

Sugli altri alimenti spiccano alcuni dati in particolare. Le uova di gallina con una concentrazione di 37.100 nanogrammi per un chilo di uova, per una somma massima assimilabile -in una settimana- da una persona che pesa 60 chilogrammi pari a 35.500; le carpe con 18.600 nanogrammi al chilo (somma massima fissata a 17.720) e il fegato dei suini con circa 36.800 (31.800). “Nei campioni analizzati sono state rinvenute altre molecole oltre a Pfoa e Pfos, le uniche due oggetto dell’indagine del 2019, sia a catena lunga che a catena corta. Sono ormai sempre più numerosi gli studi che dimostrano la pericolosità anche dei Pfas di più recente utilizzo, quelli a catena corta” si legge nel documento. Secondo l’ultimo parere dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) l’assunzione settimanale tollerabile attraverso la dieta è di 4,4 nanogrammi per chilo di peso corporeo per quattro molecole. Una riduzione di quattro volte del limite fissato nel 2018: 19 nanogrammi ma per soli due composti. In altri termini, i livelli rilevati in Veneto sono al di sopra della soglia con un’aggravante: “Non si possono considerare gli stessi livelli di rischio per persone con un’esposizione ‘di fondo’ e quelle con elevati livelli di tali contaminanti già accertati nel sangue e probabilmente anche nei tessuti” conclude il report.

Nonostante questi dati, quello di quattro anni fa resta l’ultimo monitoraggio compiuto dalle autorità. “L’immobilismo della Regione è preoccupante. A seguito della scoperta di questi dati non sono stati contattati i produttori, non sono stati informati i cittadini, non è stato fatto un ulteriore monitoraggio. Noi dobbiamo sottoporci ad esami ogni due anni, se trovi un’albicocca con un livello di Pfas fuori dalla norma, perché dopo due anni non torni a controllare quale livello è rimasto? Voglio chiarirlo, il nostro nemico non sono le istituzioni ma i Pfas. Spesso veniamo additate come le ‘guastafeste’ ma vogliamo solo un futuro sicuro per noi e i nostri figli”. Una modalità di affrontare il problema da parte delle istituzioni lontana da quella esigenza dei cittadini, di averle “al fianco e di fronte” descritta approfonditamente dalla ricerca “Cattive acque. Contaminazione ambientale e comunità violate” dell’Università di Padova.

Intanto, il 30 settembre 2021 si è svolta la terza udienza del procedimento penale ai 15 manager della Miteni (fallita, ora Mitsubishi Corporation e International Chemical Investors). L’azienda situata a Trissino (Vicenza) è accusata di essere la principale responsabile del disastro ambientale. Il 16 settembre l’accusa aveva chiesto l’esclusione di alcune delle oltre 300 parti civili che si sono costituite in giudizio -tra cui Greenpeace, Wwf, l’Azienda sanitaria locale- per mancanza di legittimazione. Il giudice ha rinviato la decisione all’11 novembre.

La difesa sembra reggere: “Abbiamo fiducia che tutte le costituzioni di parte civile vengano salvate”, commenta Cola. Sul “fronte monitoraggio”, il gruppo di attiviste chiederà di aver accesso alla completezza dei dati pretendendo un chiarimento sul metodo utilizzato e sui prossimi step che le istituzioni vogliono intraprendere per monitorare la situazione. “Delle promesse fatte finora, salvo il divieto del pescato, poche sono state mantenute. La contaminazione, però, è un problema reale per noi. Abbiamo bisogno di risposte concrete”.

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