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Diritti

In Libia la vetrina per le armi

Tutti alla grande fiera-bazar dove si possono vedere i migliori sistemi d’arma all’opera…

Il ministro Frattini deve portare molta sfortuna, o quantomeno essere un campione di tempismo al contrario! Prima dello scoppio del vespaio di rivolte nei Paesi del Nord Africa aveva espresso pubblicamente il proprio sostegno e la propria considerazione a Ben Alì, a Mubarak e al Colonnello Gheddafi… considerati modelli da seguire per democratizzare la totalità dei paesi dell’area. Sappiamo come è andata a finire.
Poi ha spergiurato, insieme ai suoi colleghi La Russa e Maroni, che l’Italia non aveva fornito armamenti al governo libico venendo smentito ripetutamente: dai dati ufficiali UE e italiani per quanto riguarda il biennio 2008-2009, dall’inchiesta di Altreconomia per quanto riguarda la fornitura di armi leggere e – recentissimamente – dai nuovi dati sull’export italiano di armi relativi al 2010. Che certificano, con autorizzazioni direttamente rilasciate dal dicastero di sua responsabilità, ulteriori accordi per un ammontare di 38 milioni e consegne definitive (le ultime delle quali, secondo indiscrezioni, dovrebbero essere datate ottobre 2010) nell’anno da poco concluso per 100 milioni complessivi.
Infine il ministro ha recentemente  espresso la propria apertura (e quindi quella dell’Italia) all’ipotesi di rifornire di armi il fronte dei ribelli al regime di Gheddafi, trovandosi immediatamente in una posizione diametralmente opposta a quella degli altri componenti della coalizione internazionale che sta intervenendo con la forza in Libia. E sicuramente mettendo in imbarazzo l’ammiraglio italiano Rinaldo Veri, a cui è stata data la responsabilità di far rispettare – sul mare – l’embargo integrale sulle forniture armiere previsto dalla risoluzione ONU, sotto il cui ombrello di legittimità si sono posti i raid aerei e gli altri interventi di natura militare.
Una bella collezione di passi falsi, non c’è che dire, che dimostra tra le altre cose (oltre all’impreparazione della nostra diplomazia in un’area che dovrebbe vederci invece protagonisti) l’assoluta inutilità del modello di intervento, militare e di forza, scelto per cercare di dipanare la complessa matassa libica. Un modello accompagnato dai soliti tragici errori di bombardamento che causano “vittime collaterali” e le tragedie umane e sociali che poi permangono come ferite profonde tra i popoli e i paesi. Che rischiano di non trovare più delle vie di uscita e di ricostruzione (l’Afghanistan insegna). Una situazione di stallo che, inoltre, fa sembrare ancora più grotteschi i moralistici appelli e le accuse rivolte ai pacifisti nei giorni “caldi” dei primi interventi, e che ora sono scomparsi dai nostri media… forse perché dei ribelli libici e delle popolazioni prese in mezzo alla guerra civile importa di meno delle notizie all’ordine del giorno.

Ma allora, verrebbe da pensare in quest’ottica in cui risulta evidente che una soluzione efficace e reale del problema libico (creato ed appoggiato – nella persona di Gheddafi e del suo regime – dagli stessi paesi ora protagonisti della coalizione internazionale), perché  la scelta dei bombardamenti è stata percorsa così in fretta?
Come mai si sono mandati gli aerei fin da subito, pur senza avere un coordinamento di natura politica, sugli interlocutori e gli assetti futuri, e nemmeno dal punto di vista militare?

Una prima risposta, abbastanza sensata, si riferisce alla necessità da parte di alcuni paesi di un cambio degli equilibri socio-geopolitici dell’area: Francia in testa che da tempo aveva un ruolo marginale negli interessi del sud-Mediterraneo e che infatti si è subito buttata nell’opzione di guerra.  Ma si può anche fare strada una nuova interpretazione più legata a dinamiche del business bellico, e che parte proprio da un’azione militare francese: sfruttare i raid in Libia come vetrina per la vendita dei sistemi d’arma aerei. 
La teoria è stata per la prima volta riportata dal sito di politica europea EU Observer. Non solo dunque la necessità di uno spot per Sarkozy in vista delle presidenziali del prossimo anno, ma anche di un passaggio pubblicitario “gratuito” per il caccia Rafale (costo per esemplare circa 60 milioni di euro) le cui vendite non sono andate certamente secondo le attese.
Il Rafale rafaleha infatti sparato il simbolico “primo colpo” dei raid internazionali, illogicamente ben prima degli attacchi concordati alla contraerea da parte delle truppe britanniche e statunitensi, ed è stato subito ben mostrato in tutte le immagini diffuse dal Ministero della Difesa francese. Lo stesso jet (che l’azienda costruttrice Dassault spaccia come unico velivolo multiruolo essendo capace di combattimento aereo, bombardamenti e operazioni di osservazione) si è reso protagonista dell’unica distruzione accertata di un caccia di Gheddafi. Avvenuta tra l’altro a terra e dopo un intercettamento aereo e conseguente inseguimento; un bel modo di effettuare una “demo” di tutte le capacità descritte nelle brochure tecniche.
Insomma una bella promozione, migliore anche di quella più probante del conflitto afghano: “Ma siccome nessuno capisce gli obiettivi della guerra in Afghanistan – ha dichiarato Jeean-Pierre Maulny, condirettore dell’Institute for Strategic and International Relations (Iris) di Parigi – è più efficace vedere impiegato l’aereo in un intervento militare in cui viene esplicitato il giusto intervento contro un dittatore sanguinario”. E se si parla bene di tale intervento una buona luce viene gettata anche sugli strumenti impiegati in questi raid: “La decisione di effettuare il primo colpo è stata politica e non tattica… e si è portata dietro l’effetto secondario di una buona visibilità per il Rafale”, ha concluso Maulny.
Tutta manna per un aereo di cui si sono venduti finora almeno 300 esemplari all’aviazione transalpina, di cui nessuno fuori dei confini di Francia (“I francesi sono disperati nel cercare di venderlo – ha dichiarato Francis Tusa analista per Defence Analisys – visto che hanno sempre perso le gare per la fornitura a Singapore, Corea del Sud e Marocco”).
Mentre invece Dassalut – la quale ha respinto seccamente queste teorie – cerca ora di piazzare sia agli Emirati Arabi Uniti che al Brasile, dopo aver cercato contatti con lo stesso Gheddafi. Il tutto con sullo sfondo anche la partita per la mega-fornitura all’India che si presenta già all’orizzonte, ipotesi che non devono essere considerate fantascienza “campata per aria” perché la battaglia per assicurarsi il contratto indiano, che dovrebbe riguardare 126 aerei, è in pieno svolgimento ed ha anche nel nostro paese coinvolto i buoni uffici di rappresentanti del Governo. Il caccia della Dassault è infatti in lizza con l’EFA Typhoon già impiegato in Libia (e di cui i costruttori hanno subito magnificato le capacità di interoperabilità) ma in misura minore del Rafale e lo svedese Gripen di cui si conoscono le solide capacità ma che non è mai stato impiegato in battaglia dal suo primo volo del 1988. (e infatti il governo Svedese è internzionato ad entrare nella missione internazionale proprio per poterlo far usare). Mentre invece il distintivo “usato e testato in combattimento” può essere solo di aiuto quando si deve cercare di vendere sul mercato un aereo militare da milioni di dollari la cui scelta – essendo pochi i concorrenti – si basa più sul convincimento politico che sulle reali capacità tecniche. Tanto è vero che per bombardare le postazioni di terra libiche non è stato usato nessuno di questi caccia di recente generazione, ma i vecchi “Panavia Tornado” concepiti negli anni ’70 del secolo scorso proprio perché gli unici in grado di farlo essendo più duttili e meno “tecnologici” (basti pensare che per utilizzare le poche decine di EFA Typhoon per il pattugliamento aereo “di superiorità” si sono dovuti dispiegare almeno 100 tecnici…).

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