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Ambiente

In difesa della terra

L’importante è scavare. Anche se ciò comporta la riapertura di una cava in disuso all’interno di una zona di protezione speciale; anche quando -basta in fondo un po’ di maquillage- la ferita nella montagna viene mascherata da “ricomposizione ambientale”; anche…

Tratto da Altreconomia 120 — Ottobre 2010

L’importante è scavare. Anche se ciò comporta la riapertura di una cava in disuso all’interno di una zona di protezione speciale; anche quando -basta in fondo un po’ di maquillage- la ferita nella montagna viene mascherata da “ricomposizione ambientale”; anche se, scavando terreni alluvionali, c’è il rischio di intercettare e contaminare la falda; e pure quando non si è proprio autorizzati a farlo. Il filo che unisce le storie che abbiamo raccolto in queste pagine, dalla Lombardia al Veneto, partendo dalla Marche, è questa domanda “Che cosa non si fa per cavare?”

Sul depliant turistico la cava non c’è. Il volantino è dedicato al territorio del comune di Frontone (Pu), a forte vocazione turistica. Dalla rocca del castello (dell’undicesimo secolo) la veduta spazia tra il monte Catria e la strada che sale al Monastero di Fonte Avellana. In mezzo, però, c’è il ritaglio di un’altra immagine, una toppa che copre la ferita nella montagna. Un piccolo trucco neanche tanto riuscito che non cambia la realtà dei fatti: per noi, che ci siamo affacciati dal belvedere, è stato impossibile non vedere il sito estrattivo di Rava della Foce. La vecchia cava di maiolica di cui nessuno va fiero. Ma che verrà riaperta, anche se allontana i turisti. La Provincia di Pesaro e Urbino, con una variante al Programma provinciale delle attività estrattive (Ppae), permetterà di asportare 1,3 milioni di metri cubi di maiolica, un tipo di calcare massiccio. Rava della Foce fa parte di un “pacchetto” di 3 cave, per quasi 4 milioni di metri cubi calcare: gli altri siti individuati dalla Provincia di Pesaro e Urbino, amministrata dal centro sinistra, sono Gorgo a Cerbara (nel comune di Piobbico) e a Ponte Alto (nel comune di Cagli). Tutte e tre ricadono all’interno di aree protette, Siti d’interesse comunitario (Sic) e Zona di protezione speciale (Zps). Ma ciò non frena gli appetiti dei costruttori locali, che hanno fame di calcare massiccio, quello che pesa 2.500 chili per un metro cubo.
L’assessore provinciale con delega alle attività estrattive si chiama Massimo Galuzzi e “giustifica” la variante sulle cave con l’aritmetica: il Programma provinciale, approvato dalla Giunta nel 2003 autorizzava -tra sabbia, argille, calcari, gessi e quant’altro- quasi 18 milioni di metri cubi; sono circa 6 milioni di metri cubi quelle non ancora “assegnate”.
A questo si provvede adesso, all’ultimo tuffo e in deroga a leggi nazionali. C’è, infatti, un decreto ministeriale del 17 ottobre 2007, firmato dall’allora ministro dell’Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio, che riguarda la conservazione delle Zps e dei Sic: Bruxelles ci impedisce di autorizzare nuove attività estrattive all’interno delle stesse. È lo stesso dm, però, a prevedere un periodo di transizione di 18 mesi durante il quale era possibile “l’ampliamento delle cave in atto […] fermo restando l’obbligo di recupero finale delle aree a fini naturalistici”. Sarebbe scaduto nel marzo del 2009, se una leggina del 27 febbraio di quell’anno
(l. 13/2009) non avesse prorogato il periodo di altri 18 mesi, fino al 10 ottobre 2010. È per questo che il provvedimento della Provincia di Pesaro e Urbino viaggia verso l’approvazione a tappe forzate: il passaggio in consiglio provinciale è fissato per il 27 settembre, quando questo numero di Ae sarà già in stampa. Ma se non passa adesso, l’ampliamento delle tre cave non potrà passare mai più. Per questo siamo pronti a scommettere sull’esito del voto. 
In gioco ci sono una trentina di ettari di montagna: 15,18 a Piobbico, 1,11 a Frontone, 13,78 a Cagli. Le attività di cava sono mascherate come recuperi ambientali. I “vecchi” cavatori, infatti, hanno lasciato pareti verticali, su cui non cresce niente. Ma i “nuovi” cavatori, che con tutta probabilità saranno i vecchi, dato che in larga parte hanno in disponibilità i terreni, porteranno via solo quanto necessario a trasformare i tagli in parchi e zone a verde.
“Le proposte di variante -racconta Massimo Binci, in consiglio regionale con il gruppo di Sinistra ecologia e libertà- sono sempre interventi puntuali che rispondono ad esigenze specifiche, portate avanti in modo lobbistico. È una politica puntiforme, che non si preoccupa di una visione generale”. La Regione Marche ha discusso e approvato, nel dicembre del 2009, alcune modifiche alle “Norme per la disciplina delle attività estrattive” (l. 71/1997). In quell’occasione Binci ha avanzato richieste di verifica del fabbisogno reale del territorio. “È un elemento centrale della programmazione”, spiega.
Non ha ottenuto risposta. 
Il nodo del fabbisogno di materiale di cava è stato posto anche dal Servizio ambiente della Regione Marche, che con il decreto n. 80 del 2 luglio 2010 ha sostanzialmente bocciato la variante. Il documento, in particolare, contesta l’asserita necessità di cavare calcare nei tre siti: la Provincia giustifica l’intervento con la necessità di 3,6 milioni di metri cubi per i cantieri della terza corsia della A14, nei tratti Fano (Pu)-Cattolica (Rn) e Fano-Senigallia (An); secondo i documenti che Autostrade per l’Italia ha inviato a Regione e ministero dell’Ambiente, però, la richiesta di “materiale di qualità proveniente da cava” è fermo a 152mila metri cubi. Il resto verrà recuperato tramite una cava di prestito (che è fuori del Piano regionale delle attività estrattive e dalle conseguenti previsioni dei Programmi provinciali) e dalle cave di Novafeltria e Arcevia.    
Quello firmato dal dirigente della funzione “Valutazioni ed autorizzazioni ambientali” è un parere vincolante. Nonostante il parere negativo, tuttavia, la Provincia può procedere in virtù del “pubblico interesse, anche di carattere economico” cui rimanda l’intervento. La scadenza del 10 ottobre giustifica la fretta di approvare la delibera senza attendere il parere della Commissione europea, cui la Regione Marche ha chiesto di esprimere un parere in merito al polo estrattivo di Frontone, quello “nascosto” dalla foto, perché la nuova delimitazione della cava andrebbe ad intaccare praterie definite “habitat prioritario”. Ciò potrebbe aprire le porte a un ricorso di fronte al Tribunale amministrativo regionale. Con l’approvazione definitiva del consiglio provinciale emergeranno anche le altre “falle” del provvedimento di variante: da un’analisi comparata della legislazione nazionale (il citato Dm 17 ottobre 2007) e regionale (Dgr 1471/2008), ad esempio, emerge che l’atto arriva fuori tempo massimo. Le Marche, infatti, non hanno mai recepito l’atto con cui la “deroga” voluta a suo tempo da Pecoraro Scanio è stata allungata fino all’ottobre 2010. Una “svista” che rischia di costare cara ai cavatori: 3,9 milioni di metri cubi di calcare sono pari a 9.750.000 tonnellate, e sul mercato possono valere tra i 100 e i 200 milioni di euro. Molti, a fronte di un contributo da versare ai Comuni interessati dalle attività di cava di 1,4 euro per metro cubo.    
In gioco c’è, però, un piatto anche più grande: nel 2013 la Provincia di Pesaro e Urbino dovrà approvare il nuovo Programma per le attività estrattive (Ppae). La Regione potrà senz’altro ridurre le pretese di chi non ha “consumato” tutto il fabbisogno dei dieci anni precedenti. Per le aziende ciò significa che “devono” raggiungere l’obiettivo massimo autorizzato. E possono farlo anche a costo di spianare tutto il Nord delle Marche.

Veneto, due progetti per “sbancare” il Nord-Est. La strategia è semplice: basta definire “ricomposizione ambientale” il progetto di cava che interessa la frana del Brustolè, sul monte Priaforà, nell’alto vicentino. La “versione” data all’opinione pubblica spiega che è necessario asportare 4 milioni di metri cubi di ghiaia e roccia dolomia, in 15 anni, per mettere in sicurezza la zona. L’obiettivo vero è poter vendere gli inerti: quella sul Brustolè è una cava “mascherata”, che non troverete in alcun Piano regionale delle attività estrattive. 
Sulla frana del Brustolè hanno messo gli occhi, dal 2002, gli imprenditori di R.A. – Ricomposizioni Ambientali, una srl creata ad hoc da una dozzina di imprenditori del settore delle costruzioni e dell’edilizia. Tra gli azionisti, il nome più noto è quello di Betonrossi, la società che produce calcestruzzo e fa parte del gruppo piacentino Cementirossi. R.A. ha già speso oltre mezzo milione di euro in attesa che parta il progetto: l’intervento nei loro programmi sarebbe durato 70 anni. Troppi se l’obiettivo è quello di risolvere una situazione “critica” e “a rischio”.
Passeggiando alle pendice del monte Priaforà il “materiale inerte” che fa gola ai cavatori si vede ad occhio nudo. La roccia del Brustolè è molto fratturata: basterebbe passare con una escavatrice per recuperarla. Lungo la riva del torrente Posina, i membri del “Comitato per la difesa della frana del Brustolè”, nato per opporsi al progetto, spiegano qual è il “rischio”: l’ultimo scivolamento della “frana”, un movimento franoso presente da tempi antichissimi, è del 1966, dopo un periodo di forte pioggia; le rocce, allora, ostruirono il corso del torrente e le acque uscirono dagli argini, allagando alcune frazioni di Arsiero e Velo d’Astico, i Comuni più vicini.
Oggi la frana è ferma, come certificano i rilevamenti dell’Università di Bologna, svolti dal 1997 per conto della Comunità montana “Alto Astico e Posina”. “Basterebbe un’adeguata manutenzione dell’argine e la frana non si sposta” spiega Giulio Ciribella, già sindaco di Velo d’Astico e presidente della Comunità montana.
Scavando, invece, il Brustolè potrebbe tornare a scendere.
Ad aprile 2010 R.A. ha risposto con un corposo volume di circa 600 pagine alla richiesta di integrazioni arrivata dalla Regione Veneto. Quelli del Comitato, con pazienza, hanno sezionato i contenuti. Il risultato è stato un volantino, diffuso ad agosto. “Spieghiamo, tra l’altro, che se partirà la ‘ricomposizione ambientale’ 18 bilici ogni ora passeranno per le strade di Arsiero” racconta Elena Lorenzato, presidente del Comitato.
Nel frattempo, qualcosa è cambiato: nel 2009 i Comuni di Arsiero, Cogolo del Cengio e Velo d’Astico avevano approvato, nell’ambito del Piano di assetto del territorio intercomunale (Pati), il divieto di “ogni attività di rimozione e movimentazione di materiale non finalizzata alla costruzione e manutenzione di arginatura al piede” della frana del Brustolè. Dalla montagna, insomma, non si poteva portare via un solo sasso. Nel marzo 2010, però, la Commissione regionale per la valutazione ambientale strategica (Vas) ha “suggerito” ai Comuni una modifica. La nuova formulazione del Pati consente di asportare materiale, se gli interventi sono atti “a garantire la stabilità del versante”. Dalla Regione Veneto, quando sentono parlare della frana del Brustolè, glissano: “In realtà non è un progetto di coltivazione di cava. È tutto fermo, perché in Commissione Via attende l’esito di un monitoraggio che Regione ed enti locali stanno facendo sul fronte di frana”. Quelli del Comitato (www.comitatobrustole.org) non si fidano e il 10 ottobre danno appuntamento alla passeggiata “Quattro passi guardando il Brustolè”. Il loro obiettivo è che la “frana” resti sulla montagna.
Un centinaio di chilometri più ad est, la Cava Morganella è nascosta da un’alta siepe. La si può vede solo dall’alto: Google Maps mostra un lago lungo la strada provinciale Feltrina, tra i Comuni di Paese e Ponzano Veneto. Nel trevigiano, la Provincia seduta su un letto di ghiaia. “Misura un chilometro per 500 metri, ed è la più grande cava d’Italia a falda affiorante -racconta Andrea Zanoni, presidente dell’associazione Paeseambiente e consigliere comunale per l’Idv a Paese-. Ciò significa che stanno scavando sotto il livello della falda. Sono arrivati a 40 metri di profondità, ma hanno chiesto di potersi spingere fino a 65”. “Loro”, i cavatori, sono Biasuzzi, Grigolin (Superbeton spa) e Calcestruzzi (gruppo Italcementi). “Quelle che all’origine erano tre cave, scava scava sono diventate un unico grande bacino -spiega Zanoni-. Ci sono tre proprietà, che per questo progetto hanno costituito un Ati, associazione temporanea d’impresa”.   
Il progetto prevede di prolungare l’attività per 20 anni, scavando 8,8 milioni di metri cubi di ghiaia. “Un affare complessivo da 80 milioni di euro” chiosa Zanoni.
Il sindaco di Paese, sul cui territorio ricade il 13% della cava, è contrario; lo era anche quello di Ponzano Veneto, finché -nel 2009- non è stato eletto il nuovo sindaco: “Purtroppo i proprietari, come i petrolieri in Texas, riescono ad avere tantissimi uomini a rappresentarli”. Nel dicembre del 2009 il sindaco di Ponzano Veneto ha sottoscritto un accordo preventivo con i cavatori: prima di ottenere l’autorizzazione da parte della commissione Via regionale, che è ancora bloccata, hanno ricevuto l’avallo dell’amministrazione locale. 

La cava che non c’è
Alla confluenza dei torrenti Aronchio e Staffora, nel comune di Varzi (Pv), non c’è mai stata nessuna cava. Eppure da quasi trent’anni l’alveo del fiume è stato occupato da due aziende i cui nomi indicano, in modo palese, l’“oggetto” dell’attività: la prima, poi fallita, si chiamava Padana Strade; quella che ne ha preso il posto, acquisendola dal tribunale fallimentare, è la “Vallestaffora srl impresa costruzioni edili e stradali”.
La ghiaia recuperata dall’alveo dei corsi d’acqua serviva a produrre catrame.
C’è voluta un gruppo di cittadini, riuniti nel Comitato “la nostra Staffora”, nato nel 2007 per la salvaguardia della valle, a portare Vallestaffora srl davanti al tribunale amministrativo regionale (Tar) della Lombardia. La caparbietà del Comitato ha finito per scoperchiare un “vaso di Pandora”: gli impianti e le costruzioni della società insistono su di un’area interamente demaniale e soggetta a vincolo paesistico, classificata come zona agricola e a rischio “di esondazione e dissesti morfologici di carattere torrentizio”. “All’inizio era solo una cava di ghiaia, ma non siamo in grado di quantificare quanto materiale sia stato asportato in questi trent’anni -racconta Maria Teresa Dalavecuras, presidente del Comitato-. Poi hanno iniziato a produrre catrame, senza la minima autorizzazione”.
Tutto confermato dalla sentenza del Tar, del luglio 2010. Solo la nascita del Comitato ha costretto il Comune, che prima affidava appalti all’impresa, ad attivarsi, negando il condono edilizio e l’autorizzazione paesistica. 
Vallestaffora srl ha 60 giorni, da metà settembre, per ricorrere contro la sentenza del Tar. Se non lo farà sarà costretta ad abbandonare un terreno che occupa dal 1999 senza alcun titolo: l’unica concessione, a favore di Padane Strade, era scaduta nel 1986.

Questione di nomi
La differenza tra una cava e una miniera è tutta di carta e riguarda la “natura” del materiale. Le attività estrattive sono oggi di competenza regionale, mentre la ricerca di sali minerali risponde ancora al Regio decreto n. 1443 del 1927, che ne riconosce l’interesse nazionale. L’hanno imparato “sul campo” i membri del Comitato “Col del Roro” e dell’associazione Pro Schievenin, che nei comuni Quero e Alano di Piave, in provincia di Belluno, dal 2007 si oppongono a due progetti “uguali e diversi” a pochi chilometri l’uno dall’altro. A Campo, infatti, Cementirossi vorrebbe aprire una cava di marna da cemento, per il vicino impianto di Pederobba (Tv). Il progetto prevede l’estrazione di 4 milioni di metri cubi per 20 anni. Poco più in là, nella valle di Schievenin, il progetto è relativo ad una miniera di sali magnesiaci. Che stanno, naturalmente, nascosti nella roccia (almeno 8 milioni di metri cubi).
Il progetto è in stallo alla commissione Via regionale. L’area è all’interno del Massiccio del Grappa, un’area protetta in cui -dal 1994- è impossibile aprire nuove cave. Ecco perché i cavatori sostengono che la loro iniziativa sia una miniera. Info: http://comitatocolderoro.blogspot.com/     

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