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Opinioni

In bottega lo scambio è un incontro

Il commercio equo e solidale è un simbolo dell’altra economia come esperienza generatrice di cambiamento: perché la parola "commercio" torna a significare incontro tra persone consapevoli che lo scambio riguarda merci ma anche relazioni umane   

Tratto da Altreconomia 155 — Dicembre 2013

Il futuro del commercio equo e solidale. È un aspetto essenziale nel cammino verso un’economia liberante. I protagonisti di questa tradizione di impegno pensano a un rilancio che implichi l’alleanza con chi lavora per un’economia sociale e civile, alla creazione di opportunità di progresso per i produttori e di tutela per i lavoratori, a un più forte contributo a favore della democrazia partecipativa.
Ma gli ostacoli sono molti. Anzitutto oggi c’è la necessità di sopravvivere in un contesto economico egemonizzato dalla finanza, nel quale produzione e commercio di beni diventano secondari. A tale difficoltà si lega la mancanza di una risposta politica alla prepotenza delle oligarchie finanziarie. Lo sfaldamento dei partiti in quanto istituzioni al servizio della democrazia -e di conseguenza l’inadeguatezza dei governi e delle pubbliche amministrazioni- determina la mancanza di interlocutori pubblici. Bisogna inoltre tenere conto del fatto che si è imposta -anche da noi- una povertà di massa, a cui non sono preparate né le istituzioni né il volontariato. Il Sud è ovunque, non è più un riferimento geografico come quando il commercio equo e solidale nacque. Non meno grave è la mancanza di conoscenza e di confronto sui temi dell’economia. Non c’è più un pensiero critico collettivo, se non presso una minoranza, e le proposte culturali si arenano nel deserto dell’istupidimento generale.

A fronte di questi ostacoli, la forza del commercio equo e solidale sta in primo luogo nel tenere viva e diffusa l’esperienza del vero significato della parola “commercio”. In essa il riferimento alla merce rimanda al significato della preposizione latina “cum”, indica un fare con, è un’attività che si fa insieme. Perciò il commercio non è un qualsiasi scambio tra produttori e compratori, ma è lo svolgersi sul piano economico di un incontro tra persone che si riconoscono come tali e si rispettano, perché sono consapevoli del valore del vincolo umano, etico e civile che le lega. Quel “cum” dice che il commercio non è tra estranei, bensì tra membri della stessa comunità umana. Nello scambio concepito secondo le regole del capitalismo, non c’è relazione tra persone o comunque essa è minima. Il denaro funge come fattore che svincola dalla relazione vera e propria e ciascuno, nello scambio, pensa solo a sé: al proprio vantaggio, al profitto, allo sconto, al potere che acquisisce. Invece nel commercio equo e solidale lo scambio deve esprimere la natura propria di una buona relazione interumana. Prima viene il riconoscimento di persone e relazioni, poi, sul criterio di giustizia che ne discende, si impostano produzione e commercio.

Il fatto di portare nella comune quotidianità delle persone la presenza di punti di vendita, di incontro, di informazione e di proposta indica d’altra parte che i luoghi del commercio equo e solidale possono aiutare l’altreconomia a divenire per molti un’esperienza generatrice di cambiamento. Il capitalismo è già cultura totale, forma di vita di massa, la democrazia no. Questo tipo di commercio concorre a radicare la sobrietà e la democrazia come forma di vita. C’è un salto tra il consumatore e il cittadino, soprattutto se inteso come cittadino del mondo. Il commercio equo e solidale lavora per colmare questo salto. Perciò è essenziale che le botteghe siano centri di iniziativa culturale e civile, soggetti di coordinamento tra le realtà alternative al liberismo. Il che implica anche che siano uno strumento di condivisione non di un “messaggio” superficiale, riducibile a slogan, ma della conoscenza delle cause della “crisi” e degli elementi per l’alternativa. La partecipazione senza conoscenza si disperde facilmente. Al contrario, il processo di maturazione del sapere va coltivato ogni giorno e tradotto nella cura del rapporto con i giovani, con le famiglie, con le scuole, con le università, nel rapporto con le comunità locali (qui e nel mondo) e con le istituzioni, nel rapporto con sindacati e partiti, che vanno sollecitati a ripensare la loro percezione della realtà. Le botteghe devono essere una presenza visibile e accessibile di emersione della coscienza personale e corale. Una coscienza che susciti le energie per cambiare le regole dell’economia, dando vita a una stagione di profonda trasformazione del diritto in senso democratico. La grandezza del compito non deve sgomentare o indurre a un attivismo nevrotico: non si tratta di fare più cose, ma di selezionare gli obiettivi per fare meglio le cose essenziali. —
 

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