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Ambiente

Ilisu, la diga della discordia

Un miliardo e cento milioni di euro l’investimento per un mega-sbarramento alto 141 metri sul fiume Tigri. Nonostante i rischi sociali e ambientali, le proteste degli espulsi e le perplessità dei Paesi confinanti (Iraq e Siria), il governo della Turchia non intende rassegnarsi

L’obiettivo del governo di Ankara è molto chiaro e ben definito: completare la mastodontica diga di Ilisu (alta 141 metri), nel cuore del Kurdistan turco, entro la prima metà del 2014. Ovvero esattamente a cinque anni dal ritiro dei finanziatori europei -in particolare le agenzie di credito all’esportazione di Austria, Germania e Svizzera- a causa dei tanti problemi di natura socio-ambientale legati al progetto, già in precedenza messo in naftalina per le stesse criticità al principio del nuovo millennio. Allora fu la Sace (l’assicuratore pubblico italiano) a tirarsi indietro insieme ala sua omologa britannica.
 
Attualmente sono quasi 1.500 i lavoratori impegnati a far sorgere il mega-sbarramento sul fiume Tigri dal costo di 1,1 miliardi di euro. Come riferisce il New York Times, Ilisu è completa al 53 per cento, ma le autorità turche sono convinte di riuscire a centrare la scadenza prefissata. Il celebre quotidiano statunitense racconta anche della continua militarizzazione dell’area, a soli 40 chilometri dal confine con la Siria e poco più di 70 da quello con l’Iraq. E qui veniamo a uno dei punti più controversi dell’opera, ossia il pesante impatto che la diga potrebbe avere sui flussi idrici oltre i confini turchi. Nonostante le perplessità dei governi di Damasco e Baghdad, l’esecutivo di Ankara non ha rinunciato al progetto.
 
Una volta riempito il bacino artificiale creato dalla diga (operazione che si concluderà nell’arco di una decina di mesi), per un’estensione di 30mila ettari, saranno poi parzialmente sommersi una delle perle del Kurdistan, la millenaria città di Hasankeyf, e altri importanti siti archeologici. Ma non da meno saranno le conseguenze sulle comunità locali. Rischiano lo sfollamento almeno 55mila persone, per un totale di 200 insediamenti. Le questioni delle compensazioni e delle rilocazioni erano tra quelle più “calde” durante le trattative con le agenzie di credito all’export europee, che in proposito non hanno ricevuto le richieste rassicurazioni e garanzie dalla Turchia. Un ruolo fondamentale nella decisione delle tre agenzie lo hanno giocato anche le organizzazioni della società civile internazionali, che ormai da oltre un decennio conducono campagne in solidarietà con le popolazioni kurde contro il progetto.
 
A conferma di tutto ciò va evidenziato come nell’articolo del New York Times si parli dei primi nuclei familiari reinsediati e di come siano “molto insoddisfatti” delle loro nuove sistemazioni e della perdita delle terre da loro coltivate. I timori espressi in molteplici occasioni da vari soggetti trovano quindi tristemente conferma.
 
“Stiamo assistendo a quanto già accaduto nel caso della diga di Batman negli anni Novanta” ha dichiarato Arif Aslan, uno dei membri dell’associazione “Save Hasankeyf”. Nel caso di quel progetto idroelettrico, gli sfollati furono oltre 20mila e le loro condizioni di vita sono nettamente peggiorate. Ma Ankara non si ferma e attende di beneficiare dei 1.200 megawatt annuali che saranno prodotti dall’impianto di Ilisu.

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