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Interni / Inchiesta

Il vuoto dopo l’Expo

Ciò che resta del Decumano, il viale centrale di Expo 2015. Le membrane sono state smontate mentre restano ancora in piedi alcuni padiglioni - Duccio Facchini

A 11 anni dalla candidatura di Milano, il futuro dell’area è ancora incerto. Ed intanto è naufragato il progetto di un parco di 440mila metri quadrati a servizio della città

Tratto da Altreconomia 193 — Maggio 2017

Lungo il Cardo e il Decumano non c’è modo di ripararsi dal sole. I teli che facevano ombra ai viali durante l’Expo 2015 di Milano sono stati smontati. A rivenderli, all’inizio del febbraio di quest’anno, è stata Arexpo Spa, proprietaria dell’area. È questa società -il cui primo azionista è lo Stato-, che sta gestendo la “rigenerazione” immobiliare di quasi un milione di metri quadrati. Undici anni dopo la prima proposta di candidatura della città a ospitare l’Esposizione.

A metà aprile 2017, dei settanta padiglioni costruiti dai Paesi ospiti e dagli sponsor ne sono rimasti intatti dodici. I lotti dovevano essere riconsegnati entro maggio 2016

A metà aprile 2017, dei settanta padiglioni costruiti dai Paesi ospiti e dagli sponsor ne sono rimasti intatti dodici. Tredici considerando quello del Turkmenistan che alcuni operai stanno smantellando pezzo per pezzo durante il nostro sopralluogo. Stando al “Regolamento generale dell’Expo Milano 2015” inserito nel dossier presentato dall’Italia al Bureau International des Expositions (BIE), i lotti assegnati ai partecipanti dovevano essere “rimessi in pristino” e “riconsegnati entro maggio 2016”. Ma il futuro incerto delle aree ha dilatato i tempi. Il padiglione del Nepal giace ancora in attesa di essere smontato e ricostruito nel Comune di Livigno (SO). Il Decumano su cui si affaccia oggi è percorso dalle auto dell’istituto di vigilanza. Anche quello degli Stati Uniti è rimasto in piedi. “Il consorzio privato che lo gestiva sta discutendo con la società che l’ha costruito”, fanno sapere da “Expo 2015 Spa in liquidazione”, incaricato di organizzare la dismissione dei padiglioni. Anche Alitalia è nella lista dei ritardatari.

Chi sfora non incappa in penali e dal 31 ottobre 2015 non ha avuto affitti da pagare. C’è chi è rimasto fermo su precisa indicazione dei proprietari dell’area. È il caso di Intesa Sanpaolo e del suo padiglione con il marchio ancora in vista all’inizio del Decumano. “La nostra struttura insiste su una piattaforma tecnologica interrata che ospita cavi e fibre -spiegano dall’ufficio stampa dell’istituto di credito-, e la società proprietaria del sito ci ha chiesto di mantenerlo”. Stesso discorso per gli edifici di Lindt e Perugina (Nestlé), più avanti, verso il Cardo. Li ha in capo la società Gioform Srl, organizzatrice della rassegna Eurochocolate a Perugia. Durante Expo, come racconta il suo presidente, Eugenio Garducci, la Srl ha tirato le fila del cluster del cacao. “Se avessimo demolito il manufatto avremmo imposto lavori di rimessa in pristino”, spiega Garducci a proposito dell’edificio Lindt. Risultato: si mantiene il tutto “in attesa della ridestinazione delle aree”.
È l’attesa il cuore della fase “post Expo”, annunciata da 11 anni. È in attesa il cluster del caffè, con le fotografie dei produttori che pendono dai soffitti. O quello della frutta e dei cereali. Sono in attesa il padiglione della Tanzania e l’”Expo Center” all’ingresso Ovest del sito. Attende il “Mercato” dello scenografo Dante Ferretti: le bancarelle di finti ortaggi, spezie o pane sono ancora al loro posto, transennate al sole in mezzo al Decumano. Attende anche il “Padiglione zero”. Senza un impianto di riscaldamento come buona parte dei padiglioni -concepiti del resto per una stagione estiva mentre si sono ritrovati la vita allungata di un anno e mezzo, almeno- è di proprietà di Arexpo. Tenerlo chiuso è la cosa che costa meno.

“Non sono un architetto e non sono un urbanista. A me un’area tutta verde contrapposta a un’area di solo cemento non piacerebbe” (Giovanni Azzone, presidente di Arexpo)

La “M” di McDonald’s non se n’è andata. E non se ne andrà. Il fast food, infatti, tornerà in funzione durante l’apertura estiva di parte del sito. La rassegna avviata nel 2016 si chiama “Experience” e dal 27 maggio di quest’anno replicherà il tentativo di rianimare il “parco”.
Per lo staff della Fondazione Triulza, di stanza nella Cascina omonima, la parentesi “Experience” è vissuta come la fine di un lungo letargo. Quella che doveva essere la “casa del terzo settore”, infatti, è l’unico punto di Expo rimasto presidiato dal primo novembre 2015, il giorno in cui è scoppiato “il nulla”, come racconta negli uffici della Cascina Chiara Pennasi, direttrice della Fondazione. È una dei cinque “reduci” che ancora lavorano nella struttura-avamposto: chiusa dentro al sito è praticamente circondata da alte mura fatte di lamiera, con il punto di ristoro più vicino all’altezza del carcere di Bollate. “Il contratto di gestione è stato prorogato al 31 ottobre 2016. Oggi ci troviamo in una situazione di ‘proroga tecnica’”. Nell’estate 2016, Arexpo ha fatto una “chiamata pubblica” per affidare la gestione biennale della Cascina e del “Children Park”. “Noi abbiamo risposto”, racconta Pennasi. Ma da allora non si è più saputo nulla. “I ritardi sono legati al fatto che non è ancora chiaro il passaggio complessivo, la destinazione finale. Per noi è complicato: i costi di gestione di una struttura di questo tipo, pari a 120mila euro all’anno, sono importanti e il regime di proroga tecnica ha bloccato la programmazione di iniziative e collaborazioni a lungo termine”. Oggi gli spazi della Cascina -uffici, sale conferenze- sono ordinati ma vuoti: nessuna realtà del terzo settore ha scelto di rimanerci.

Una delle “stecche” di Expo affacciata su una “vasca”. In lontananza, il padiglione blu di Lindt -sponsor della manifestazione- ancora in piedi - Duccio Facchini
Una delle “stecche” di Expo affacciata su una “vasca”. In lontananza, il padiglione blu di Lindt -sponsor della manifestazione- ancora in piedi – Duccio Facchini

Dalla finestra del suo ufficio, Pennasi vede il Palazzo Italia e l’Albero della vita. Lì sotto c’è una piazza che non è lasciata al degrado, ma è come avvolta in una bolla. È qui -tra il Palazzo Italia, un edificio recuperato delle “stecche” e due nuovi immobili che andranno costruiti- che dovrebbe sorgere entro fine 2017 il centro di ricerca “Human Technopole” (HT), progettato tra fine 2015 e inizio 2016 dall’Istituto italiano di tecnologia (IIT) di Genova e dal suo direttore scientifico, Roberto Cingolani. La genesi di HT fotografa il “post Expo”. Dall’ottobre 2006 fino all’ottobre 2015 non c’è stata un’idea. Non l’hanno avuta le istituzioni del territorio (Regione, Provincia, Comune di Milano e di Rho), che nell’estate 2011 hanno stipulato un “accordo di programma” sulle aree, un tempo destinate in larga parte a “verde agricolo”. Alla “Fase Post-Expo” è dedicato solo un articolo: la “trasformazione urbanistico-edilizia” del sito sarebbe stata regolata da un “Programma integrato d’intervento unitario”, con la previsione di una capacità edificatoria di circa 480mila metri quadrati. Tra le prescrizioni per il “dopo” spicca la realizzazione di un complesso residenziale di circa 30mila metri quadrati “da destinare permanentemente a servizi abitativi a carattere generale (housing sociale)”. E una grande superficie a “parco tematico”, non inferiore al 56% dell’area.
Il tempo, intanto, corre. Nel novembre 2014, a sei mesi dall’avvio dell’Expo, nel pieno dei ritardi dei cantieri, l’asta indetta da Arexpo Spa per le aree va deserta. Intanto, il presidente del Consiglio Matteo Renzi, in due occasioni, riconosce il “senso di responsabilità istituzionale” della Procura di Milano per la “moratoria” sulle inchieste. Ai primi giorni dell’ottobre 2015, prossimi alla chiusura della fiera, il Governo, senza indire alcun concorso di idee, interpella l’IIT di Genova e il suo direttore Cingolani chiedendogli un’idea. Una via d’uscita. “A metà ottobre 2015 abbiamo presentato un documentino leggerissimo di dieci pagine in cui delineavamo l’idea di un grande laboratorio. Poteva essere di tutto -racconta a quasi due anni di distanza il professor Cingolani-. Essendo scienziati abbiamo detto ‘bah, pensiamo a un laboratorio’. L’idea era bella perché si inquadrava sui punti di forza italiani come la nutrizione, la qualità della vita, la medicina di precisione come futuro di un welfare molto avanzato”. Quelle dieci pagine, prive di un piano economico e finanziario, convincono l’esecutivo che le approva per decreto come “misure urgenti”. È il 25 novembre 2015. All’istituto diretto da Cingolani viene destinato un “primo contributo” di 80 milioni di euro per la “realizzazione di un progetto scientifico e di ricerca” di cui sono appena accennate le caratteristiche: un organico di 1.500 persone e un costo medio pro capite “intorno ai 95mila euro l’anno”. Trascorre quasi un altro anno prima del decreto di approvazione del progetto. Nel frattempo, l’Università Statale di Milano, per bocca del suo rettore Gianluca Vago, si dice interessata a far decollare i dipartimenti scientifici dal quartiere di Città Studi (20mila persone stimate) e a farli atterrare sui terreni di Arexpo. In quel momento, a un anno dalla fine di Expo, non si conosce ancora la “collocazione” dello Human Technopole, tanto che l’IIT chiede di bloccare lo smantellamento di alcuni padiglioni (come Ungheria e Polonia).

Le piante del giardino di Cascina Triulza circondate da un’alta barriera di lamiere. Servono a impedire l’ingresso ai non autorizzati al sito espositivo - Duccio Facchini
Le piante del giardino di Cascina Triulza circondate da un’alta barriera di lamiere. Servono a impedire l’ingresso ai non autorizzati al sito espositivo – Duccio Facchini

A metà dicembre 2016, con un governo dimissionario, viene definitivamente approvata la Legge di Stabilità 2017, un provvedimento fondamentale per la “rigenerazione” dell’Expo. Sono autorizzati i finanziamenti a favore della “fondazione” chiamata a realizzare e condurre il grande “laboratorio”: 628,6 milioni di euro dal 2017 al 2022 e 140,3 “a decorrere dal 2023”. Su dieci anni fanno esattamente 1,4 miliardi di euro. Non solo. In Stabilità è stata deliberata anche la spesa per l’avvio delle attività di progettazione “propedeutiche” al trasferimento della Statale: 8 milioni di euro per il 2017, recuperati un comma più avanti anche tramite il taglio di 5 milioni di euro al Fondo per gli investimenti nella ricerca.

È all’inizio di quest’anno, quando le risorse pubbliche per far partire il “Technopole” sono garantite, che Arexpo Spa si muove. Il 3 gennaio dà il via libera alla gara internazionale per la selezione di un operatore “tecnico, economico e finanziario” che possa supportarla a fare due cose: stendere il masterplan dell’area “pubblica” del “Parco della Scienza, del Sapere e dell’Innovazione” -con HT al centro, Università Statale e l’ospedale Galeazzi del Gruppo San Donato- e dall’altra parte “sviluppare” tutto ciò che resta dell’area, fino a un massimo di 480mila metri quadrati di superficie lorda di pavimento (SLP) edificabile. La prima fase, quella di consulenza, è regolata da un appalto di servizi con base d’asta al ribasso fissata a 3 milioni di euro. La seconda, invece, prevede una concessione dei terreni con diritto di superficie dalla durata massima di 99 anni (all’inizio erano 50). L’ammontare della base d’asta al rialzo del canone che il privato dovrebbe versare ad Arexpo, però, non è pubblico ma è formalizzato nelle “lettere di invito” spedite a metà aprile 2017 ai tre consorzi rimasti in corsa che fanno riferimento ai gruppi Stam Europe, Lendlease e Coima (dell’italiano Manfredi Catella).
Nella lettera sono riportate anche le oltre 40 richieste pervenute ad Arexpo attraverso altrettante “manifestazioni d’interesse non vincolanti” ad insediarsi nelle aree dell’Expo (da IBM all’Università Statale di Milano). Lo sviluppatore dovrà tenerne conto e strutturare la proposta. Così come dovrà rispettare il vincolo dell’area a parco di 440mila metri quadrati. Il committente (Arexpo) ha già fatto sapere però di preferire il frazionamento del verde, e non il mantenimento di un’area “unitaria”, come invece il Consiglio comunale di Milano (anche il Comune è socio di Arexpo) aveva “impegnato” sindaco e giunta a fare con una mozione dell’estate 2011. “Non sono un architetto e non sono un urbanista -spiega ad Ae il professor Giovanni Azzone, presidente di Arexpo, già rettore del Politecnico di Milano e nel Cda di Poste Italiane-. A me un’area tutta verde contrapposta a un’area di solo cemento non piacerebbe. Però magari sono i miei gusti ad essere sbagliati”. A ciò si aggiunge il fatto che per poter mantenere l’area, o meglio, le piccole aree a verde, e contemporaneamente assicurare allo sviluppatore i 480mila metri quadrati di superficie calpestabile previsti dal bando, stando alla stessa Arexpo, gli edifici che sorgeranno, “niente centri commerciali e villette”, saranno alti. Ma tutto è in divenire, si vedrà all’apertura delle buste, il 31 luglio 2017.

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L’unica indicazione “perentoria” che la società proprietaria dei terreni ha dato ai concorrenti riguarda la localizzazione del centro “Human Technopole”, approvata a marzo e che ruota tutta intorno a Palazzo Italia. Si tratta però di 22mila metri quadrati di superficie fondiaria. “Analizzato in millesimali non è nulla -riconosce Cingolani, che nel dicembre 2016 ha fatto registrare il dominio ‘htechnopole.it’- ma è l’idea che fa appiccare il falò”. L’immagine è efficace.
HT trascina con sé una vasta operazione immobiliare, che nel quartiere Città Studi sta facendo discutere. All’inizio di aprile, il Senato accademico e il Consiglio di amministrazione dell’Università Statale di Milano sono stati chiamati a esprimersi sulla proposta di trasferimento dell’Ateneo, da allegare alle lettere di invito di Arexpo.
In Senato, al momento del voto -non vincolante e ancora non decisivo-, Elio Franzini, professore del dipartimento di Filosofia, si è schierato per il no. “Per una ragione di metodo -spiega-. Il pre pre-progetto che ci è stato sottoposto è giunto alle 13.20 del giorno stesso, un’ora prima del voto”. Alla nota di metodo se ne aggiunge una di natura economica, che non è stato possibile affrontare con il rettore Vago perché ha declinato la proposta di intervista. L’investimento previsto dall’Università per il suo trasferimento ammonterebbe a 380 milioni di euro. Di questi, 130 milioni dovrebbero giungere dallo Stato, 120 da nuovo debito a carico dell’Ateneo e il resto dall’alienazione degli immobili che la Statale perfezionerebbe con Cassa depositi e prestiti (Cdp). Ad oggi, però, “non esiste alcuna perizia ufficiale del valore dei palazzi in vendita perché non esiste alcun progetto con l’Università Statale di Milano”, spiegano da Cdp. “Che cosa ci farebbe poi Cassa depositi e prestiti con edifici scolastici vincolati come sono le torri di Biologia di via Celoria 26?”, si chiede il professor Franzini-. Ci apprestiamo addirittura ad alienare un edificio di Informatica, non ancora terminato, che è stato concepito come scolastico”. Franzini indossa i panni del cittadino milanese. “Mi domando da quando in qua la politica urbanistica della città la faccia l’Università. Come si può decidere in totale autonomia di lasciare liberi 320mila metri quadrati in tutto senza che gli enti locali ne abbiano immaginato una futura destinazione?”. E aggiunge un particolare da “umanista di mestiere”: “L’edificio di via Cesare Saldini è il luogo dove è nata l’Università di Milano. E noi lo alieniamo? Immaginate se lo facesse la Sorbona. Quando un’università perde il rispetto per la propria storia significa che c’è qualcosa che non va”.

Ma l’imperativo adesso è “rigenerare”. Poco importa che alcune opere indicate nel Dossier di candidatura come essenziali o connesse non siano ancora arrivate a compimento (la metropolitana M4 di Milano o l’autostrada Pedemontana lombarda) o lo abbiano fatto con grave ritardo rispetto all’inizio dell’Expo (M5, a fine 2015). Poco importa che tra Arexpo e i precedenti proprietari dell’area siano aperti ancora contenziosi milionari sulle bonifiche. Poco importa che le inchieste della magistratura milanese siano ancora in corso: nel gennaio 2017, il Giudice per le indagini preliminari Lucio Marcantonio, ha disposto la proroga di sei mesi per le indagini sulla “piastra” di Expo, che dal 15 novembre 2016 riguarda anche il sindaco di Milano Giuseppe Sala, indagato per concorso in falso ideologico e materiale.
Tutto questo, pare, è ormai un lontano ricordo. Ma di alcuni membri della squadra di Sala quand’era amministratore delegato di Expo Spa è opportuno aggiornare il curriculum. Christian Malangone, già direttore generale di Expo Spa, è stato condannato nel novembre 2015 a quattro mesi per induzione indebita nel rito abbreviato del processo, ora in Appello, che riguarda viaggi e contratti attivati dalla società a favore di due ex collaboratrici del presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni. Nel dicembre 2016, mentre dirigeva l’Ufficio di liquidazione di Expo 2015 Spa, Malangone ha assunto due cariche.
Una è quella di direttore generale del consorzio Digicamere, “polo di eccellenza tecnologica” al servizio delle Camere di Commercio. L’altra è quella di consigliere del Cda della “Cyber Security Platform”, una Srl milanese impegnata ad “assistere le organizzazioni e le imprese nell’individuazione delle minacce e dei rischi digitali”. Nel giro di un mese, Malangone è uscito di scena dalla compagine societaria della seconda, mentre è rimasto nella prima attivando un part-time: “L’evoluzione di altri impegni lavorativi, intervenuta in concomitanza con le prime attività di esercizio della carica -spiega ad Ae l’interessato- mi ha portato ad una riconsiderazione della compatibilità dei diversi incarichi, in termini di tempo e delle energie professionali che ognuno di essi richiedeva”. Malangone figura ancora nell’advisory board online della “Cyber Security”, in compagnia di Giuliano Tavaroli (ex brigadiere che ha patteggiato la pena di 4 anni e mezzo nel processo sui dossier illeciti Telecom), Carlo Lucchina (ex direttore generale della sanità lombarda, coinvolto nel processo milanese sull’assegnazione dell’appalto dei Teleospedali), Nicola Sanese (strettissimo collaboratore di Roberto Formigoni), Giuseppe Biesuz (già direttore generale di Ferrovie Nord Milano, arrestato per malversazioni nel 2012).

L’altro collaboratore di Sala che è bene ricordare è Piero Galli, “general manager” di Expo Spa dal 2013 al 2015. Terminata l’Esposizione ha fatto due cose: è entrato nel Cda di una società di investimento del gruppo De Agostini (la Idea Capital Funds) e ha contribuito a fondare la Finalter Spa, una società di consulenza composta “da un team di professionisti che hanno guidato al successo Expo Milano 2015”, come si legge sul suo sito. Scopo? “Salvaguardare le competenze maturate e renderle disponibili ai nostri clienti”. Tra i soci, alla primavera del 2017, figura ancora l’attuale sindaco di Milano, Giuseppe Sala. “A seguito alla decisione di candidarsi a Sindaco di Milano -spiegano dall’ufficio stampa di Sala- ha costituito la partecipazione in trust. Il soggetto nominato Trustee ha totale indipendenza di gestione. L’aggiornamento avverrà con il deposito del bilancio, nella primavera 2017”. La partecipazione è congelata, in attesa di vedere che cosa succederà. L’identico destino dei terreni dell’Expo.

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