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Il voler bene, sopra tutto – Ae 85

A quarant’anni dalla scomparsa di don Lorenzo Milani, si è fatto un gran parlare del priore di Barbiana. Abbiamo chiesto a Francesco Gesualdi, che è stato uno degli allievi di don Milani, di condividere con noi alcuni frammenti di quegli…

Tratto da Altreconomia 85 — Luglio/Agosto 2007

A quarant’anni dalla scomparsa di don Lorenzo Milani, si è fatto un gran parlare del priore di Barbiana. Abbiamo chiesto a Francesco Gesualdi, che è stato uno degli allievi di don Milani, di condividere con noi alcuni frammenti di quegli anni. Con uno sguardo all’oggi


“Spesso gli amici mi chiedono come faccio a fare scuola e come faccio ad averla sempre piena. Insistono perché io scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi, le materie, la tecnica didattica. Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter far scuola”.

Così scrive don Lorenzo Milani in Esperienze Pastorali, e continua: “Bisogna avere le idee chiare in fatto di problemi sociali e politici. Non bisogna essere interclassisiti, ma schierati. Bisogna ardere dall’ansia di elevare il povero a un livello superiore. Non dico a un livello pari a quello dell’attuale classe dirigente. Ma superiore: più da uomo, più spirituale, più cristiano, più tutto”.

Il testo prosegue con molte altre raccomandazioni di carattere sociale e politico, ma chi è stato accanto al Priore di Barbiana, sa che tutti i suoi consigli alla fine sono riconducibili a una sola affermazione: “Per essere dei bravi insegnanti bisogna volere bene ai propri allievi”.

Chiedendosi costantemente cosa poteva essere il meglio per i suoi ragazzi, vegliando anche di notte per trovare il modo per coinvolgere anche l’ultimo della classe, riflettendo di continuo su ciò che ci insegnava, così lui ha costruito una scuola all’avanguardia per contenuti, metodi e obiettivi.

A giudicare da ciò che ha scritto nella sua lettera-testamento, il suo bene per noi è stato così grande da averlo messo quasi in crisi: “Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto”.

L’invito a voler bene ai propri allievi è un invito ad impegnarsi con tutto se stessi per un’altra scuola più equa, più libera, più democratica, più profonda. Invece il potere lo strumentalizza per mantenere la scuola nell’immobilismo secondo un’argomentazione che ha del diabolico: poiché per fare scuola bene bisogna sapere amare, e poiché l’amore non si può insegnare, la scuola pubblica è destinata a rimanere una brutta scuola che è inutile tentare di cambiare. Ecco un bell’esempio di come il sistema neutralizza le migliori esperienze ponendole nel tabernacolo e trasformandole in inizative sante da venerare, ma non da adottare.



Per uscire da questo gioco macabro serve qualche precisazione. L’amore non è un concetto assoluto, ma una scala con tanti gradini che solo pochi riescono a salire fino a quelli più alti della totale abnegazione. Ma come per costruire una buona sanità non è necessario che gli infermieri e i medici si prodighino in bacini per i malati, ma che li trattino con competenza e rispetto, allo stesso modo per costruire una buona scuola è sufficiente che gli insegnanti adottino un comportamento di responsabilità che può e deve essere preteso da tutti. Ad esempio sarebbe un buon inizio se abbandonassero le vesti dei giudici e cominciassero a considerare i ragazzi non degli oggetti industriali da selezionare, ma  persone che hanno il diritto di acquisire un bagaglio culturale minimo indipendentemente dalla classe di appartenenza, dal quoziente  di intelligenza, dagli handicap psico-fisici. Bisognerebbe rovesciare la concezione: non è il ragazzo che deve essere giudicato per la sua capacità di apprendimento, ma la scuola per la sua capacità di fare apprendere.

Per la verità molti insegnanti sono già in quest’ordine di idee, ma non riescono ad agire di conseguenza perché la scuola è impostata per andare in direzione opposta. Quando la scuola è impostata come un tribunale, quando i principi su cui si fonda sono il merito e la selezione, quando le classi sono sovraffollate, quando non si garantiscono gli insegnanti di sostegno, quando il tempo è ridotto, quando non ci sono neanche i soldi per le fotocopie, quando gli esami finali sono su base nozionistica,  fare scuola diversa è da eroi. Ecco perché è importante  riportare l’attenzione sulla scuola come struttura e  se oggi dovessimo riscrivere una lettera, forse andrebbe scritta al ministro della Pubblica istruzione.

In Lettera a una professoressa, l’invito a voler bene ai propri allievi, aleggia in ogni pagina, ma quando si arriva alle proposte sono tutte di sistema: non bocciare, scuola a tempo pieno, scuola motivante. È da qui che bisogna ripartire per costruire una scuola nuova, cominciando a ridefinire lo scopo. Scuola per formare buoni tecnici al servizio delle imprese o scuola per formare buoni cittadini al servizio della democrazia? Questa è la domanda dalla quale bisogna partire, rispetto alla quale io non ho dubbi. La funzione della scuola è mettere tutti in grado di essere cittadini sovrani. Da qui si parte per fare una scuola viva, una scuola che guarda al futuro e non al passato, una scuola che non si dà per vinta finché non ha consentito anche al ragazzo più in difficoltà di possedere il sapere necessario per l’esercizio delle libertà, una scuola di solidarietà.

Ancora una volta la questione è politica. Facciamo una buona politica e i comportamenti individuali corretti seguiranno di conseguenza.



Naturalmente, in attesa di un ordinamento diverso non bisogna stare con le mani in mano ed è dovere di ognuno insegnare il meglio possibile anche se la scuola è marcia. È un dovere verso i ragazzi che oggi siedono nei suoi banchi ed è un obbligo di coerenza. Non si può non attuare subito a livello personale ciò che vorremmo vedere attuato a livello di sistema. Ma bisogna essere altrettanto consapevoli che la coerenza da sola non basta. Anche in ambito scolastico, come in tutti gli altri ambiti del vivere sociale ed economico, bisogna aggiungerci l’impegno della politica per fare cambiare le regole e le strutture. Solo unendo coerenza e politica  in un matrimonio indissolubile è possibile ottenere un cambiamento duraturo al servizio di tutti.  



Barbiana, 1954-1967

Barbiana è un insieme di case sparse sulle pendici del Monte Giovi che separa il Mugello da Firenze. In quel luogo dimenticato da Dio e dagli uomini, nel dicembre 1954 venne inviato don Lorenzo Milani, per sbarazzarsi di lui. Ma invece di piangersi addosso don Lorenzo si mise al servizio dei suoi nuovi parrocchiani e avendo colto che la cosa di cui avevano più bisogno era la capacità di capire e di esprimersi si mise a fare scuola, prima agli adulti e poi agli adolescenti perché a Barbiana la scuola garantita dallo Stato si fermava alla  quinta elementare. Cominciò con sei ragazzi, una scuola a tempo pieno che fu una vera  rivoluzione per contenuti e metodi. Da un punto di vista dei contenuti ci si concentrava su tutto ciò che è utile alla vita personale, sociale e politica. Da un punto di vista dei metodi era organizzata in modo da stimolare la partecipazione, la discussione, la solidarietà, l’autoapprendimento.

Nel momento di maggiore affollamento si sono avuti venti allievi, non ragazzi del luogo, ma dei dintorni.

Barbiana è finita nel giugno 1967 con la morte di don Lorenzo Milani.



Scrittura collettiva

Lettera a una professoressa è un libro scritto in maniera collettiva dal giugno 1966 al maggio 1967. Il motivo occasionale fu la bocciatura di due ragazzi al primo anno della scuola magistrale. Barbiana non era una scuola riconosciuta e si davano gli esami come privatisti nella scuola di Stato. Agli esami delle medie inferiori i ragazzi di Barbiana non avevano mai avuto problemi, alle superiori, invece venivano stroncati. La situazione era paradossale perché sapevamo di avere una preparazione superiore a quella che forniva la scuola di Stato. Il problema, insomma, non era nostro, ma della scuola, e decidemmo di denunciare le sue storture. Lo facemmo col metodo della scrittura collettiva, una tecnica che consente a tutti di partecipare e che suscita discussioni continue non solo rispetto allo stile letterario, ma soprattutto sui contenuti. Lettera a una professoressa esce nel maggio del 1967, in tempo per dare a don Lorenzo la soddisfazione di tenerla tra le mani.





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