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Economia

Il vero paese dei balocchi – Ae 67

Babbo Natale si rifornisce in Estremo Oriente. Il 90 per cento dei giocattoli che trovate nei negozi italiani (e nei menu dei fast food) arriva dalla Cina, dove 9 aziende produttrici di giochi su 10 non rispettano le leggi su…

Tratto da Altreconomia 67 — Dicembre 2005

Babbo Natale si rifornisce in Estremo Oriente. Il 90 per cento dei giocattoli che trovate nei negozi italiani (e nei menu dei fast food) arriva dalla Cina, dove 9 aziende produttrici di giochi su 10 non rispettano le leggi su salari e condizioni di lavoro. Ma produrre dall’altra parte del mondo conviene? Solo alle grandi marche

Pinocchio imparò presto che il Paese dei Balocchi non era proprio come Lucignolo lo dipingeva. Dietro il miraggio di giostre gratis e giornate intere senza scuola, si nascondeva la realtà dura di un lavoro da ciuchi. E il nostro paese dei balocchi, quello che arriva ogni anno col Natale, cosa nasconde? Dietro bambole e macchinine impacchettate sotto l’albero, c’è l’altra faccia. Che non è tanto diversa da come dovette vederla il burattino di Collodi: un posto, lontano, dove si sgobba come somari.

Il 90% dei giocattoli che riempiono le letterine a Babbo Natale sono prodotti in Cina. Basta entrare in un supermercato qualsiasi per farsi un’idea dell’enorme varietà di giochi disponibili sugli scaffali: dal semplice secchiello di plastica alla bambola che cammina e parla, c’è davvero un po’ di tutto con prezzi che vanno da 5 ad oltre 100 euro. Per produrli, gli operai cinesi ricevono da 0,1 a 0,5 dollari. Lo spiega l’ultimo rapporto di China Labor Watch, dedicato appunto alle condizioni dei lavoratori che producono i giocattoli destinati ad essere esportati in tutto il mondo, Italia compresa.

Il documento (
www.chinalaborwatch.org/upload/toyindustryreport.doc) concentra l’analisi sulla fabbrica Kai Long che produce per Hasbro e Mattel (i colossi mondiali del giocattolo), oltre che per McDonald’s e Kentucky Fried Chicken (catena di fast food del pollo fritto in arrivo anche in Italia), che offrono giochi in omaggio nei menu per bambini. China Labor Watch completa il quadro fornendo indicazioni su altri dieci stabilimenti tutti localizzati a Dongguan City, nella provincia di Guangdong, davanti a Hong Kong. Delle dieci fabbriche prese in esame solo una rispetta le leggi cinesi quanto a condizioni salariali, orari di lavoro, assistenza e previdenza. Nelle altre si lavora fino a 15 ore al giorno per salari da fame, ulteriormente ridotti per un posto negli affollati dormitori, l’uso del bagno in comune con altre centinaia di lavoratori e la mensa. Ci sono anche le multe, che scattano inesorabili se si arriva in ritardo, si usa troppa acqua o si offende un superiore. Niente vacanze; licenze matrimoniali e permessi di maternità vengono elargiti a discrezione dei direttori.

Anche licenziarsi costa caro: l’ultimo mese di stipendio. Copertura previdenziale, assicurazione e sindacato sono come la chimera. Pinocchio era un bimbo fortunato, e riuscì presto a cavarsi d’impaccio. Ma a Dongguan City, purtroppo, nessuno ha visto in giro la Fata Turchina.

Su dieci giochi in mostra sullo scaffale del supermercato, otto sono prodotti in Cina per conto delle grandi marche. Pochi i giocattoli anonimi, meno ancora quelli che escono dalle fabbriche italiane alle quali resta circa il 10 % del mercato. Vien da pensare che andare a comprare i giochi in Cina, dove produrli costa meno, serva per ridurre il prezzo finale al consumatore. Ma se lo stesso gioco venisse fabbricato in Italia costerebbe davvero così caro? Forse no, come sostiene la NuovaFaro, tra le poche rimaste in Italia a produrre giocattoli: “Il fatto è che i nostri buyer preferiscono fare grossi approvvigionamenti in Cina e a noi chiedono quantitativi irrisori giusto per tappare qualche buco -spiega Laura Ruschetti-. Aumentando i volumi di produzione, anche noi potremmo produrre a costi inferiori. E la differenza sul prezzo finale per il consumatore, rispetto a un gioco importato, non sarebbe enorme”. Probabile, visto che già adesso all’Ipercoop di Firenze il beauty center per bambine della NuovaFaro costa 22,90 euro contro i 19,90 di uno senza marca fabbricato in Cina. Di diverso c’è che la NuovaFaro ha margini di profitto molto bassi, al contrario delle grandi aziende che importano e commercializzano prodotti a marchio: se queste ultime accettassero di ridurre i loro enormi guadagni, i giocattoli si potrebbero produrre qui.

Anche secondo Giampiero Ciambotti della segreteria nazionale di Cgil Filtea (la federazione dei lavoratori del comparto tessile, calzaturiero e del giocattolo) producendo in Italia i prezzi al consumo rimarrebbero quasi gli stessi: “Dal 1979 al 2004 si sono persi in Italia oltre 11mila posti di lavoro, è quasi sparito l’intero comparto: un risultato che deriva dalla scelta di mirare solo alla massimizzazione dei guadagni”.

Ricostruire il viaggio di un giocattolo dalla fabbrica cinese allo scaffale italiano è operazione complicata, soprattutto perché le aziende interpellate (Hasbro, Mattel Italia e McDonald’s) tacciono su prezzi di acquisto, ricarichi e margini di profitto.

Il costo di produzione e il prezzo praticato all’importatore straniero dipendono da una corposa serie di variabili: qualità della plastica, degli occhi e dei capelli, costo dello stampo, rifiniture e congegni (se il bamboccio piange, parla o cammina il prezzo sale). Incide, e non poco, anche la forza contrattuale dell’acquirente: le multinazionali che commissionano milioni di pezzi ottengono forti sconti rispetto al piccolo importatore. Che, infatti, spesso si associa con altri per creare gruppi di acquisto e ridurre i costi. Inoltre, gli importatori più piccoli non riescono a comprare direttamente dagli stabilimenti di produzione e devono avvalersi di un intermediario, un grossista cinese. In Italia si contano sulle dita di due mani gli importatori abbastanza grandi da potersi permettere gli stessi canali delle multinazionali: è il caso di aziende come la pugliese General Trade, oppure di Giochi Preziosi, Grani & Partners, Gig Division.

Le ultime tre citate fanno parte del Gruppo Preziosi, il leader italiano del giocattolo che controlla anche i grandi centri di distribuzione specializzata come gli 88 Toys Center e le oltre 280 Giocherie.

Mattel e Hasbro rivendono poi i prodotti con il loro marchio attraverso le filiali italiane in base ad un listino prezzi nazionale, senza fare distinzioni tra acquirenti, siano essi la catena di supermercati o  il cartolaio all’angolo. Gli stessi ipermercati hanno margini di guadagno assai ridotti sui prodotti di marca, i piccoli negozianti praticamente nessuno. È il motivo per cui i negozi di giocattoli sono quasi scomparsi e i pochi che restano vendono per lo più giochi non a marchio. E poiché le multinazionali vendono direttamente ai dettaglianti, anche i grossisti sono in via d’estinzione.

Secondo gli ultimi dati Istat elaborati da Assogiocattoli, il mercato italiano del giocattolo vale circa 1.350 milioni di euro. Nei primi sei mesi del 2005 sono stati venduti 35 milioni di giochi. Le importazioni crescono di anno in anno, ma c’è anche un 65% dei giochi prodotti in Italia che viene esportato. I mercati storici, quelli della vecchia Europa, si contraggono progressivamente, ma si aprono nuove frontiere: proprio in Cina si registra un incremento delle importazioni di giochi italiani del 108%.

E l’operaio non si diverte

Secondo la legge cinese sul lavoro, un operaio non può lavorare più di 8 ore al giorno per un massimo di 40 ore settimanali. La retribuzione minima prevista è di 0,39 dollari l’ora. Gli straordinari non possono superare le 36 ore al mese e devono essere pagati almeno il 50% in più se svolti nei giorni feriali, il doppio nei giorni di riposo e il triplo per le feste comandate. All’operaio spetta un giorno di riposo completo (24 ore) alla settimana. Alla Kai Long, invece, un operaio lavora 80,5 ore settimanali delle quali 41,5 di straordinario. Lo straordinario viene pagato come il lavoro regolare cioè 0,23 dollari l’ora, una cifra pari al 59% del minimo salariale previsto. Quindi un operaio guadagna 74 dollari al mese. Da questa cifra vanno sottratti i costi per alloggio, pasti, acqua e luce, assicurazione e previdenza: il totale mensile reale è di 48,80 dollari.

Se la Kai Long pagasse il dovuto, lo stipendio sarebbe di 173,5 dollari al mese. Molti operai vengono però pagati un tot a pezzo. Per guadagnare quanto i colleghi devono produrre fino a 200 giochi al giorno.

La marca costa cara

Ecco il viaggio di due semplici giocattoli dalla Cina all’Italia, uno di marca e l’altro anonimo. Sono prodotti allo stesso modo: all’operaio cinese vanno circa 10 centesimi di euro, l’importatore italiano e la multinazionale lo pagano al fabbricante circa 2 euro. Vanno aggiunti il costo per il trasporto e il dazio, che incidono complessivamente un 30%: siamo a 2,60 euro. Nei rispettivi magazzini, le strade del giocattolo di marca e del cugino senza nome si dividono.

Il gioco senza marca viene rivenduto al dettagliante dall’importatore con una maggiorazione del 50%, ovvero a 4 euro.

Il negoziante aggiunge l’Iva e raddoppia il prezzo al consumatore, che quindi paga 9,60 euro. Ai 2,60 euro del prodotto di marca vanno aggiunti i costi per la pubblicità e le royalties, circa il 10%: siamo a 2,80 euro. Ai dettaglianti il gioco viene venduto a 11 euro. Questi aggiungono l’Iva e incrementano il prezzo del 25%: 16,90 euro. Un gioco di marca costa caro a chi lo compra e consente guadagni minimi a chi lo vende. Il grosso è per i possessori del marchio.

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