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Ambiente

Il vero costo di un litro di benzina

In Nigeria ci sono villaggi fantasma, un territorio compromesso, comunità locali abbandonate. E i pozzi di Shell ed Eni

Tratto da Altreconomia 132 — Novembre 2011

Goi è un villaggio fantasma. La scuola è diroccata, il piccolo municipio ricoperto da erbacce, di alcune case non rimangono che muri scrostati. Dal 2009 qui non vive più nessuno.
A segnare per sempre il destino di Goi sono state le perdite della Trans Niger Pipeline, l’oleodotto che attraversa la regione  fino al terminale di Bonny, dove il greggio viene processato prima di essere esportato in tutto il mondo. Nel 2004 un tubo della Shell vecchio di decenni non ha resistito più all’usura del tempo, crepandosi e versando il suo carico funesto nello specchio d’acqua accanto al quale era sorto il villaggio. Gli alberi e le piante si sono ammalati, i pesci sono morti, la terra si è impregnata di una sostanza oleosa che ne ha minato la fertilità. Di perdite ce ne sono state ancora, nel 2008 e nel 2009, ma di opere di bonifica non si è vista nemmeno l’ombra.  
Eric Dooh, uno dei capi della comunità di Goi, ci illustra la triste storia della sua famiglia. Qui suo padre dava lavoro a oltre 200 persone, tra un’impresa ittica e un panificio. “Adesso non c’è più nulla da pescare e l’acqua e la legna che usavamo per il panificio sono contaminate. Nessuno ci ha risarcito per il danno economico che abbiamo subito, anzi, come tutti gli altri ce ne siamo dovuti andar via” racconta mentre ci mostra i forni dove veniva cotto il pane, ormai spenti da anni. Ma le conseguenze del disastro non si fermano qui. “Mia madre è morta per una malattia respiratoria, anche io uso continuamente medicinali per lo stesso tipo di problemi. All’improvviso sono diventato allergico all’ambiente dove sono nato e vissuto per tanto tempo con la mia famiglia”.

Eric ha portato la Shell in tribunale all’Aja ed è in attesa di qualche novità. Anche la vicina comunità di Bodo, la più popolosa dell’Ogoniland con i suoi 69mila abitanti, ha deciso di adire le vie legali avviando una class action davanti a una corte londinese. Con successo, almeno a giudicare dai primi risultati. La Shell ha finalmente ammesso le sue responsabilità per le perdite occorse nell’estate del 2008 (della durata di oltre quattro mesi, al ritmo di 2mila barili al giorno) e nel febbraio del 2009 nel Bodo Creek, il bacino d’acqua che si estende per oltre otto miglia e che visitiamo su una barca di pescatori, ormai impiegata solo per qualche occasionale trasporto merci. La linea tracciata dalla bassa marea mostra le due facce del disastro: sopra il verde delle enormi foglie degli alberi di mangrovie, all’apparenza ancora rigogliosi (ma in realtà diminuiti in maniera sensibile rispetto al passato), sotto il nero del petrolio che avvolge nella sua morsa letale le radici e già da tempo ha cancellato ogni forma di vita. Qui non serve prendere precauzioni contro le zanzare anofele o altri insetti molesti, perché non ce ne sono. Il velo di silenzio che avvolge un po’ tutto è inquietante così come il cattivo odore che pizzica le narici e ci provoca un fastidioso senso di nausea.
“Adesso la gente non ha più lavoro e trova molte difficoltà nel procurarsi del cibo: per pescare devono spingersi fino in mare aperto, a ore di viaggio da Bodo City. La nostra economia ormai è sull’orlo della paralisi”, denuncia King Felix Geredeela, il capo della comunità, che insieme agli altri “saggi” del villaggio ci accoglie in pompa magna nella modesta sede del consiglio cittadino in Hospital Road.
Goi e Obodo non sono state visitate dagli esperti delle Nazioni Unite negli ultimi quattro anni. Eppure nel rapporto finale sulla situazione dell’Ogoniland gli emissari dell’Onu affermano che per bonificare l’intera regione serviranno 30 anni e che la Shell dovrebbe pagare un conto iniziale di un miliardo di dollari.
Ma l’Ogoniland rappresenta solo una piccola pozione dell’immenso Delta del fiume Niger, un’area di 70mila chilometri quadrati che comprende tre Stati e dove ogni giorno sono estratti oltre due milioni di barili di petrolio dalle oil corporation attive da decenni.
Nel Delta i devastanti impatti dall’attività estrattiva si incontrano ovunque. A Ebocha, nel Rivers State, una società sussidiaria dell’Eni chiamata Nigerian Agip Oil Corporation (Naoc) ha iniziato la produzione nel 1970. Mentre incontriamo una settantina di rappresentanti della comunità locale nell’ampia sala della chiesa, fuori piove a dirotto. Una volta da queste parti la pioggia era una benedizione; insieme alla estrema fertilità del terreno faceva sì che bastasse un solo raccolto per sfamare tutta la popolazione e riuscire anche a rivendere quello che avanzava. “Ora nemmeno con tre o quattro semine riusciamo a far fronte ai nostri bisogni” ci spiega Edna. Questa donna dallo sguardo fiero e dal piglio determinato ha 59 anni, sebbene ne dimostri 20 di più, e si rammenta quando in questi luoghi la gente era autosufficiente e ben felice di vivere in un vero e proprio paradiso. “A quei tempi per raccogliere la manioca dovevi tagliarla, ora le radici sono così piccole e avvizzite che si può prendere con le mani senza fare il minimo sforzo”.
Colpa delle piogge acide provocate dal gas flaring, il gas connesso al processo d’estrazione del greggio e bruciato in torcia. All’ingresso del villaggio di Ebocha contiamo tre torri le cui sommità sputano senza soluzione di continuità lingue di fuoco che salgono in cielo per oltre una ventina di metri. Il gas flaring fa ormai parte del panorama, 24 ore al giorno, sette giorni a settimana e dodici mesi l’anno. Avvicinarsi agli impianti non è facile, la zona è fortemente militarizzata. Ma già a mezzo chilometro dalle torri il calore aumenta e si sente un rumore assordante. Gli anziani del villaggio serbano ancora il ricordo di quando miriadi di scimmie saltavano da una palma all’altra. Il fracasso e i bagliori notturni le hanno scacciate altrove.
I numerosi fiumiciattoli in passato erano ricchi di giganteschi pesci gatto e di carpe che facevano la gioia dei tanti pescatori della zona. Delle oltre mille specie di pesci che si trovavano fino a qualche decennio fa, ne sono rimaste solo un centinaio. Qui in pochissimi si azzardano a gettare le reti, avrebbe veramente poco senso. 
“La nostra comunità non ha alcuna voce in capitolo, le compagnie continuano ad affermare che non impiegano il gas flaring, ma noi sappiamo bene qual è la realtà perché la viviamo ogni giorno sulla nostra pelle”. Elder Dandy è il coordinatore dell’Host Community Network e fatica a contenere il suo risentimento per una situazione che da troppo tempo non accenna a migliorare. “Noi siamo i più poveri dei poveri, tante famiglie vivono con meno di 100 naira (0,50 euro, ndr) al giorno, eppure negli impianti dell’Eni ogni giorno si producono 50mila barili di oro nero” ci illustra Dandy.   
Anche nei paraggi di Kwale e Okpai, villaggi del Delta State a poche decine di chilometri da Ebocha, i pennacchi di fuoco di almeno cinque gas flaring fanno capolino tra la fitta vegetazione tropicale. Anche questa è un’area di competenza dell’Eni, tramite la Naoc. Qui però le tensioni sociali sono molto più marcate. Mentre percorriamo le strade sterrate costeggiate da povere case con tetti di lamiera -che le piogge acide rovinano dopo pochi mesi- e muri di fango, l’avvocato Chimennma Hessington Okolo ci fornisce un quadro molto chiaro della situazione. In qualità di presidente della federazione nazionale dei giovani Ndokwa svolge un ruolo attivo all’interno delle varie comunità interessate: “Petrolio e gas sono risorse limitate, non durano per sempre. Sono risorse del nostro territorio, chi le estrae deve contribuire allo sviluppo delle comunità. E cosa ci ha lasciato Agip dopo tanti anni? Niente scuole, niente strade, se non qualche chilometro di asfalto per raggiungere i propri impianti. Allo stesso tempo ha preso la nostra terra, ha inquinato i nostri fiumi. Soffriamo di malattie respiratorie sconosciute in passato. E se alziamo la testa per protestare, arriva l’esercito a reprimerci”.
Proprio i soldati ci impediscono l’accesso all’impianto di produzione di energia elettrica (Independent Power Plant) di Kwale. Un’opera che era in cantiere da tempo, ma la cui costruzione è iniziata solo nei primi anni Duemila, quando per l’Eni si è materializzata la possibilità di presentare il progetto come intervento per la riduzione delle emissioni in atmosfera derivate dal gas flaring, tramite il meccanismo di sviluppo pulito (Clean Development Mechanism) del Protocollo di Kyoto. L’impianto per la produzione di 450 MegaWatt dovrebbe utilizzare i gas associati all’estrazione del petrolio per generare energia elettrica destinata alla rete di distribuzione nazionale.
In merito esiste un accordo con il governo nigeriano. Risale al 2002, ci dicono i capi villaggio di Kwale, ma nessuno di loro lo ha mai visto. I documenti non sono pubblici. Al 2002 risale anche la valutazione di impatto ambientale del progetto, di cui possiamo leggere alcune pagine. Tra le raccomandazioni, incluse nella valutazione dalla stessa Naoc, quella di “fornire energia elettrica alle comunità Ndokwa residenti nel raggio di 50 chilometri dalla centrale, come previsto dalla legge, riducendo così conflitti esistenti e aiutando a costruire la pace e il benessere comune”.
Nelle comunità di Kwale e Okpai e nelle altre decine di comunità Ndokwa nel raggio di 50 chilometri dalla centrale a gas, ad oggi non c’è traccia dell’energia prodotta nella centrale, né la certezza che le emissioni siano state ridotte. Le uniche fonti di luce, dal tramonto all’alba, sono quelle alimentate dai generatori a diesel delle famiglie più ricche. Dell’Independent Power Plant non possiamo fare riprese. Ma la mastodontica nuvola di fumo grigio che proviene dalla sua direzione la scorgiamo benissimo. —

Illegale da 30 anni
Il gas flaring in Nigeria è illegale da decenni. Lo ha stabilito una legge del ‘79, l’Associated Gas Reinjection Act, che fissava nel 1° gennaio 1984 il limite per porre fine alla pratica. Poi lo ha ribadito una sentenza dell’Alta Corte federale di Benin City, nel 2005. Le multinazionali del petrolio non hanno mai rispettato i provvedimenti, a dispetto delle promesse. In Nigeria sono oltre 100 le torri che sprigionano in maniera perenne lingue di fuoco che sputano diossina, benzene, sulfuri e particolati vari. Tutti agenti cancerogeni, la cui emissione accompagna l’aumento nel Delta del Niger di un ampio spettro di malattie respiratorie e forme tumorali. Dei 168 miliardi di m3 di gas bruciati ogni anno, 23 (il 13%) provengono dalla Nigeria. 400 milioni di tonnellate di ossido di carbonio. I danni sono socio-ambientali ed economici. Se il gas bruciato fosse stato immagazzinato e rivenduto, tra il ‘70 e il 2006 la Nigeria si sarebbe ritrovata 70 miliardi di dollari in più.

Gli Ogoni e Ken Saro
Il 4 gennaio del 1993, 300mila persone, la metà della popolazione Ogoni, parteciparono alla manifestazione indetta dal Mosop (Movement for the Survival of the Ogoni People) per protestare contro le malefatte della Shell nei lunghi decenni di sfruttamento petrolifero in Ogoniland. Alla guida del Mosop c’era Ken Saro Wiwa, poeta e scrittore di fama internazionale. La protesta ebbe successo, e la Shell ritirò il personale dall’area. A quel punto le autorità locali iniziarono la militarizzazione dell’Ogoniland, accompagnata da numerosi soprusi e dall’uccisione di alcuni membri delle comunità, mentre Ken Saro Wiwa subì intimidazioni di ogni tipo, culminate con l’accusa di omicidio nei suoi confronti e di altri 8 membri del Mosop. Il processo farsa si concluse con la più terribile delle condanne: la pena di morte. Nonostante una forte mobilitazione a livello internazionale, il 10 novembre 1995 Ken Saro Wiwa e i suoi compagni furono impiccati.

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