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Il simulacro del Dio denaro – Ae 89

Arturo Paoli ha 96 anni ed è tornato in Italia dopo quarant’anni da missionario in America latina. Ha vissuto i drammi dello sviluppo ineguale e della follia consumista. “La pubblicità -dice oggi- è il peggior danno della società capitalista. È…

Tratto da Altreconomia 89 — Dicembre 2007

Arturo Paoli ha 96 anni ed è tornato in Italia dopo quarant’anni da missionario in America latina. Ha vissuto i drammi dello sviluppo ineguale e della follia consumista. “La pubblicità -dice oggi- è il peggior danno della società capitalista. È un attentato alla liberta personale”.


Perché il “Dio denaro” è così potente?

La storia è stata sempre storia di “auri sacra fames”. Una “maledetta fame di denaro” che ha sempre rappresentato il senso di appropriazione presente nell’uomo, che si rende conto della sua fragilità e debolezza e cerca la potenza nella ricchezza. L’essere umano non confida nelle sue forze e, per dominare e realizzarsi, assume questo potere esterno. Laddove ci sarà l’uomo sarà sempre presente la fame di denaro. Karl Marx aveva visto molto chiaro cosa significasse considerare il denaro come valore in sé. È diventato il simbolo delle cose e della vita, all’inizio è stato visto come oggetto di scambio di più facile uso ma a un certo punto ha portato all’accumulazione. Il capitalismo si basa sul denaro come idolo.



La globalizzazione dell’economia ha accentuato ulteriormente il processo di accumulazione su scala mondiale. Come siamo arrivati a questo punto?

Tutto è stato possibile con la fine delle ideologie. Il capitale è rimasto come il solo valore in sé e come strumento di possesso. Gli Stati Uniti hanno scoperto che l’imperialismo e il dominio della Terra sono possibili solo attraverso il controllo del denaro e hanno creato un’unità di controllo, le banche. Il processo di globalizzazione, però, è nato spinto da principi umanitari. Subito dopo la Seconda guerra mondiale c’è stata una sorta di “esame di coscienza” e l’uomo si è giudicato autore di immani delitti e distruzioni. Tutti esprimevano la speranza di dire basta alle guerre. Il Papa Paolo VI si recò alle Nazioni Unite e disse chiaramente che per fermare le guerre avremmo dovuto dire basta anche alla fame, alle ingiustizie e alle grandi disuguaglianze fra gli uomini che ne sono alla base.

La “Populorum Progressio” è basata sull’utopia di un equilibrio dello sviluppo, ma nessun Paese che abbia la possibilità di svilupparsi a una certa velocità è disposto a rinunciarvi. Avremmo dovuto intervenire sui bisogni e soddisfarli tramite una sorta di “Unità di direzione dei beni della Terra”, responsabile della distribuzione. Su questo principio sono nati la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale.

Ma invece di pensare alla distribuzione si è provveduto all’ulteriore accumulazione e l’esigenza primaria è diventata quella della sicurezza tramite lo sviluppo dell’industria bellica. Soprattutto dopo l’11 settembre 2001.



Di fronte a scenari come questi, rischiamo di perdere la speranza del cambiamento?

Per questo penso che dobbiamo cambiare il mondo partendo dai più piccoli atteggiamenti umani. Bisogna cominciare con il “sanare l’uomo”, ed è possibile renderlo deciso e orientato a operare per il bene. È un compito di fondamentale importanza perché l’uomo è la causa di tutte le dinamiche che generano sfruttamento e sofferenze.



Come è cambiata l’America latina durante i quarant’anni in cui ci hai vissuto?

Tutto ciò che rappresenta il progresso in Occidente oggi c’è anche in America latina: gli stessi supermercati, gli strumenti tecnologici e informatici. Negli ultimi quarant’anni lo sviluppo è arrivato, ma non ha riguardato, ad esempio, la popolazione indigena, rimasta nella stessa situazione. Non ci sono stati dei progetti per far avanzare gli autoctoni e permettere loro di raggiungere una certa parità di possibilità con i cittadini di origine europea. Lo sviluppo ha creato ancora più esclusione e la miseria aumenta contestualmente alla crescita della popolazione. I rimedi sembrano essere solamente dei palliativi. In Brasile ad esempio negli ultimi anni c’è stato un certo miglioramento, ma è molto più apparente che reale. A Foz do Iguaçu, dove sono stato in missione, sono stati creati dei centri di salute e istruzione vicini alle favelas, ma la mancanza di lavoro rischia di vanificare ogni sforzo. Foz è un osservatorio privilegiato per l’America del Sud: si trova al confine tra tre Paesi, Brasile, Argentina, Paraguay, e queste tre frontiere costituiscono il passaggio naturale di tutti gli strumenti di innovazione, ma anche di strumenti di morte come la droga e le armi. La frontiera con il Paraguay è una zona franca aperta a ogni tipo di traffico. Anche quello dei bambini, degli organi umani, delle donne. Per questo è una zona di conflitto e i giovani muoiono, in proporzione, come a Rio de Janeiro.



Oggi sei tornato a vivere in Italia. Il consumismo come ha cambiato il Paese che avevi lasciato?

C’è da impazzire notando la differenza con il mio tempo. Non sono nato in una famiglia povera, ma nessuno vorrebbe oggi vivere come vivevo io. I passatempi erano pochi: qualche cinema, le escursioni sulle montagne della Lucchesia. Era una vita più sana e non ricordo di aver sofferto di nessuna mancanza. Non sentivamo bisogni perché questi non erano offerti dal mercato. I miei bambini della favela in Brasile hanno un gioco molto semplice: basta un pezzo di carta e un filo ed è pronto l’aquilone, un divertimento vero perché non ci sono altre possibilità. Oggi il consumismo vive strizzando l’occhio alle voglie. Quand’ero giovane l’unica propaganda di qualche prodotto era quella del cacao. Mi ricordo una pubblicità di cui era protagonista una coppia di vecchietti e la moglie versava la cioccolata calda al marito. Pochissimi avevano le automobili. Oggi è tutto cambiato e i danni maggiori sono quelli provocati dalla pubblicità che toglie la libertà di scegliere. Non ce ne accorgiamo, ma è così: per ogni bisogno c’è una grande quantità di oggetti a tentarti. È un meccanismo talmente sottile e studiato che gioca sulla psicologia della gente. È il peggior danno della società capitalistica. Per poter produrre oggetti che sono poco necessari è sempre più necessario stuzzicare la curiosità con parole chiave e immagini che frammentano la vita dei giovani, togliendo loro la possibilità di concentrare l’attenzione permanente su cose più serie che migliorino l’esistenza. È un attentato alla libertà personale.



I giovani vivono un senso di precarietà molto più forte che in passato. Questa incertezza influisce anche sulla speranza di una società politicamente più responsabile?

La precarietà non permette ai giovani un’organizzazione personale della loro vita e li obbliga a rimanere nella famiglia di origine. Una dipendenza che rende difficile la creazione di una coppia stabile e minaccia l’avvenire di nuove famiglie “sane”. La situazione è resa ancora più complicata dall’uso eccessivo di tutti gli strumenti di comunicazione, che rendono, per certi aspetti, più difficile l’amicizia fra i giovani, e quindi il confronto sulle loro opinioni politiche. Ricordo che al mio tempo questo scambio era più facile: organizzavamo degli incontri periodici in cui si discuteva con interesse e fervore sui progetti politici, magari utopici, ma che ci arricchivano molto e rendevano interessanti questi incontri.



Quali sono per Arturo Paoli le maggiori sfide che abbiamo di fronte per il futuro?

Una delle sfide più urgenti e importanti è la formazione di gruppi decisi a lottare per la pacificazione universale. L’Europa del passato ha prodotto ideologie che presentavano l’uomo come “lupo all’uomo” e proponevano pedagogie basate sulla forza, sulla superiorità e sulla violenza. Negli ultimi decenni, invece, sono nate forme di pensiero che propongono una formazione dell’uomo guidata dall’amicizia, dal dialogo e dalla comprensione reciproca. Filosofi di grande fama hanno introdotto forme di pensiero destinate a cambiare completamente l’indirizzo del pensiero stesso, ponendolo sull’orizzonte della giustizia e della pace.

È necessario lavorare su questo solco che è stato tracciato.



Ti confronti molto con i giovani. Cosa dici a loro, che non solo sono il futuro, ma anche il presente?

Ai giovani suggerisco sempre di fare letture accessibili e utili, di confrontarsi con i coetanei e pensare seriamente alla propria formazione come uomini e donne miti, pacifici e aperti agli altri. Vorrei che capissero profondamente che non esiste l’individuo, ma tutti noi siamo legati. Il tuo cambiamento e la tua vita influiscono sulla pace, sulla giustizia. Fino a che non andremo alle cause della povertà, fino a che l’uomo non agirà sulle sue pulsioni, non ci sarà pace. La propaganda consumista è rivolta alle pulsioni, al sesso, al desiderio e agli aspetti materiali della vita. Il cambiamento è possibile e potremo raggiungere la liberazione solo vivendo secondo amore.

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