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Il Senegal a pesci in faccia – Ae 63

Numero 63, luglio/agosto 2005 Seicento chilometri di coste e uno dei mari più pescosi del mondo. Fino a pochi anni fa. Poi sono arrivati i barconi europei e asiatici a rastrellare cernie, orate e sogliole per i mercati occidentali. Ecco come…

Tratto da Altreconomia 63 — Luglio/Agosto 2005

Numero 63, luglio/agosto 2005 
Seicento chilometri di coste e uno dei mari più pescosi del mondo.
Fino a pochi anni fa. Poi sono arrivati i barconi europei e asiatici
a rastrellare cernie, orate e sogliole per i mercati occidentali. Ecco come i nostri consumi influiscono su pescatori e popolazione locale
 

Guet-Ndar (Senegal) – Anche le case qui sono fatte di sabbia e conchiglie tritate: nella Langue de Barbarie, una striscia di sabbia stretta fra l’oceano e il fiume Senegal, tutti vivono di pesca, da sempre. Un ponticino separa questo minuscolo villaggio di pescatori dall’isola su cui si trova Saint Louis de Senegal, localini e ristoranti per il sollazzo dei turisti.
Attraversato il fiume, spariscono le casette in toni pastello e le boulangerie con specialità francesi lasciano il posto alle strade coperte di sabbia dove gironzolano le capre e giocano i bambini, le donne puliscono il pesce e lo cucinano con il riso nell’immancabile tiéboudienne, che qui è il piatto di ogni giorno.
A mezzogiorno una lunga fila di piroghe di legno sulla riva annuncia il rientro dei pescatori, partiti al mattino. Parte del pesce portato a riva oggi, come alla stessa ora da tempo immemorabile, servirà per nutrire le famiglie del villaggio, il resto verrà venduto: le specie pregiate ai grossisti che poi lo metteranno sul primo volo in partenza per l’Europa; i pesci più poveri, come le sardine, al mercato locale. Diventeranno la materia prima per migliaia di donne impegnate nella trasformazione del pesce che essiccato, salato o affumicato arricchirà con proteine preziose la dieta delle popolazioni dell’interno del Senegal e degli altri Stati dell’Africa Occidentale.
 
Scesi dalle piroghe, i pescatori si riuniscono sotto le tettoie disseminate lungo la spiaggia, fra le case e il mare: riparano le reti, bevono tè verde forte e dolcissimo, chiacchierano. Non è andata bene, oggi, la pesca. Troppo vento, di quello che va da Sud verso Nord e i pesci li porta via. E non è andata bene nemmeno a chi è uscito in piroga durante la notte: siamo attorno alla metà del mese e la luce forte del plenilunio rischiara troppo le acque dell’oceano, i pesci vedono l’ombra della piroga e scappano.
Ma, negli ultimi anni le giornate come queste si susseguono. Anche quando il vento è calmo e spira nella direzione giusta, anche quando la luna è pallida, di pesce non se ne trova mai abbastanza. Colpa dei barconi, delle tonniere europee che di giorno non si vedono perché stanno in mare aperto, ma di notte si avvicinano e buttano le loro reti sul limite delle 8 miglia, ovvero sul confine delle acque costiere riservate ai pescatori artigianali.
“Così creano una barriera con le reti e impediscono ai pesci di spingersi verso la costa. Senza contare le continue incursioni all’interno del limite che distruggono le nostre reti e provocano spesso incidenti”, spiega Yaram Fall, segretaria della sezione locale della Fénagie Pêche, la federazione nazionale dei gruppi di interesse economico del settore pesca. Yaram viene da una famiglia di pescatori, ha avuto il privilegio di andare a scuola e traduce in francese le invelenite discussioni in wolof che si accendono fra i pescatori quando chiedo perché di pesce ce n’è sempre meno.
 
Con oltre 600 chilometri di coste, il Senegal vantava fino a pochi anni fa uno dei mari più pescosi del mondo. Fino a quando non sono arrivati gli europei, i cinesi, i giapponesi, i coreani che si portano via le qualità di pesce più pregiate, quelle che noi vogliamo trovare al supermercato. Già, perché buona parte delle orate, delle cernie, dei gamberoni e delle sogliole che ci troviamo nel piatto arrivano proprio dall’aeroporto di Dakar. I senegalesi non ne mangiano più e nemmeno riescono a guadagnare qualcosa dai nostri prelibati pasti, perché anche chi cattura e rivende queste nobili varietà di pesce è straniero.
A fare man bassa sono i pescherecci industriali di proprietà europea o asiatica. Oggi, per poter pescare queste specie tanto redditizie i pescatori dovrebbero spingersi troppo lontano dalla costa e le loro piroghe di legno, quelle colorate con le scritte che chiedono protezione ad Allah, non sono in grado di affrontare il mare aperto. Chi ci ha provato, ha pagato con la vita.
Da tempo i pescatori artigianali chiedono al governo di sospendere il rilascio delle licenze di pesca ai Paesi stranieri, in primis all’Unione europea, per arginare uno sfruttamento forsennato delle risorse ittiche senegalesi che rischia di lasciare il mare senza pesci nel giro di pochi anni, i pescatori in disoccupazione e gli abitanti del Paese senza proteine nella dieta. Il governo ribatte che i soldi che l’Unione europea sgancia in cambio delle licenze di pesca, prima voce di entrata di valuta straniera, sono essenziali per evitare il dissesto del bilancio nazionale.
Il decimo accordo di pesca fra il Senegal e l’Unione europea è stato siglato nel 2002 e scadrà nel novembre 2006: permette ai nostri barconi di pescare fino ad 8.000 tonnellate di pesce all’anno in cambio del pagamento di 64 milioni di euro. La situazione è addirittura peggiore per quanto riguarda i rapporti con i colossi asiatici, Cina, Giappone e Corea: non esistono accordi formali con questi Paesi e il governo del Senegal rilascia una licenza per ogni peschereccio, senza stabilire la quota massima di pesce che è possibile pescare. I governi asiatici si sdebitano attraverso la “cooperazione”: quando ne hanno voglia costruiscono uno stadio o una scuola.
La pesca è dunque un settore strategico dell’economia nazionale, ma lo sfruttamento irrazionale ha già creato una situazione allarmante: le risorse costiere attuali sono pari circa a un quinto di quelle disponibili nel 1950 e alcune specie, come le orate e le cernie ,sono a rischio di estinzione.
Il governo del Senegal ha da sempre optato per una gestione delle risorse ittiche decisamente orientata verso l’esportazione, anteponendo l’esigenza di far cassa con la vendita delle licenze alla sicurezza alimentare dei senegalesi (il cui fabbisogno di proteine animali è coperto per il 75% dal pesce) e alla tenuta occupazionale del settore della pesca artigianale, che impiega circa 600 mila persone.
Il bisogno di liquidità del governo senegalese e la crescente richiesta di pesce pregiato del mercato europeo determinano un sempre maggiore sfruttamento delle risorse ittiche che si regge su tecniche di pesca irresponsabili come il ricorso alla dinamite, alle reti a strascico e a reti con maglie troppo fitte che intrappolano i pesci prima che raggiungano la maturità sessuale, impedendone la riproduzione.
Ad esempio, per pescare un chilo dei gamberi che a noi piacciono tanto, restano nella rete anche 3 chili di piccoli pesci che vengono buttati via.
 
Da anni gli organismi di rappresentanza dei pescatori artigianali invocano la totale revisione delle politiche adottate dal governo senegalese in materia di gestione delle risorse ittiche e degli accordi con l’Unione europea. Ma fino ad oggi hanno ottenuto ben poco.
“Gli ultimi accordi con l’Unione europea sono stati firmati senza di noi, a tradimento”, denuncia Amadou Wade, segretario del coordinamento nazionale della Fénagie Pêche che riunisce oltre 17 mila pescatori artigianali.
“Dopo otto turni di negoziati ai quali eravamo stati ammessi per la prima volta a partecipare, il nono è stato convocato senza avvisarci e in quella sede è stato siglato l’accordo. È folle continuare a firmare accordi proprio con i Paesi che mandano a pescare qui le barche responsabili della costante e drammatica riduzione delle risorse ittiche. Significa uccidere il mare e la pesca artigianale del Senegal. Significa far sparire il pesce dal piatto dei senegalesi. In cambio di niente. Perché i soldi che il governo incassa grazie alla vendita delle licenze, contrariamente a quanto viene sbandierato nei discorsi ufficiali, non vengono usati per sostenere il settore della pesca artigianale”.
Quando i pescatori portano a casa buone quantità di pesce -continua Amadou Wade-, la maggior parte marcisce sulla spiaggia perché mancano i moli, le celle frigorifere, i camion refrigerati per portare il pesce all’aeroporto e ci sono pochi voli in partenza per l’Europa. Al governo chiediamo almeno di investire parte dei soldi ricavati dalle vendita delle licenze agli imprenditori stranieri in strutture e infrastrutture a sostegno della pesca artigianale. E invece di quei soldi non abbiamo mai visto nemmeno l’ombra, nemmeno il miserrimo 1% che sulla carta dovrebbe essere versato alle associazioni di pescatori per venir gestito direttamente da loro”.
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Controlli e strutture per salvare le coste
La Fénagie Pêche si sta preparando al confronto con il governo in vista del rinnovo degli accordi di pesca con l’Unione europea. Il principale coordinamento delle comunità di pescatori tradizionali del Senegal chiede: investimenti a sostegno della pesca artigianale per costruire moli, celle frigorifere, magazzini, strutture e infrastrutture per la trasformazione del pesce, migliori vie di comunicazione;
l’introduzione di turni di riposo biologico del mare; l’estensione delle aree costiere riservate alle piroghe dei pescatori artigianali;
una valutazione degli stock di pesce rimasti per pianificare lo sfruttamento sostenibile delle risorse ittiche; la fine delle pratiche di pesca distruttive, come il ricorso alla dinamite e a reti con maglie troppo strette; maggiori controlli sulle attività dei pescherecci industriali, specialmente per quanto riguarda il rispetto delle acque riservate alla pesca tradizionale.
“Ci batteremo perché il governo dia priorità alla salvaguardia e alla gestione sostenibile delle risorse ittiche -dice Amadou Wade-. Un cambiamento di rotta necessario se non vogliamo che la maggiore risorsa del Senegal si esaurisca nel giro di pochi anni”.
 
Piroghe nella pancia dei battelli coreani: nuovi sfruttatori, gli schiavi di sempre
Li chiamano bateaux ramasseurs, battono bandiera coreana e vengono a Guet-Ndar in cerca dei migliori pescatori del mondo, i senegalesi di Saint Louis.
Gli intermediari mandati dai proprietari dei bateaux ramasseurs passeggiano sulle spiagge dei villaggi dove vivono i pescatori artigianali, per reclutarne qualcuno che faccia da guida verso le zone più pescose o per imbarcarli sui pescherecci con le loro piroghe.
Nel ventre degli enormi battelli asiatici vengono caricate fino a 25 piroghe di legno con i rispettivi equipaggi, composti ciascuno da cinque uomini. I barconi coreani attraversano le acque internazionali e poi scaricano le piroghe e i pescatori di Saint Louis nelle acque costiere della Guinea e dell’Angola, Paesi dove non c’è nessuna norma o accordo che regoli la pesca. Stanno in mare per circa tre mesi e ogni giorno consegnano il pescato ai coreani che lo lavorano direttamente a bordo per esportalo poi sui mercati asiatici.
Le condizioni di lavoro sono durissime, ai limiti della schiavitù: la paga pattuita non viene mai rispettata anzi, spesso in cambio del pesce si riceve giusto un piatto di riso.
In tanti però continuano a imbarcarsi a Guet-Ndar: lasciano l’attività che fu dei padri e dei nonni, perché troppo spesso si torna a riva con le reti vuote e si imbarcano sui pescherecci coreani nella speranza di portare i soldi a casa. Vivono nello sfruttamento più brutale, senza possibilità di appellarsi a niente perché quando sei nelle acque internazionali o di un Paese straniero non c’è accordo, regola o contratto che valga.
E così l’attività dei pescatori artigianali si riduce sempre più, sono sempre meno quelli che escono in mare con le piroghe di legno per riportare il pesce sulla spiaggia di Guet-Ndar, con la conseguenza che sulle mense delle famiglie locali di cibo scarseggia. Mentre i loro nipoti sono sui battelli coreani a farsi sfruttare come schiavi, i vecchi pescatori di Guet-Ndar guardano un piatto vuoto.!!pagebreak!!
 
3 euro e 50 al chilo e una mazzetta per volare
I principali importatori di pesce senegalese sono Italia, Francia, Spagna e Grecia.
Orate, dentici, cernie, sogliole e gamberi alle 17 arrivano al mercato di Soumbédioune, sulla spiaggia di Dakar,
e alle 7 del mattino successivo sono sui banchi dei nostri supermercati.
Un esportatore paga circa 3,50 euro per un chilo di orate e ne riceverà 5,20 dall’importatore italiano. Ma dal guadagno
dovrà sottrarre le mazzette per gli intermediari, figure necessarie per trattare con le compagnie aeree. Altrimenti il pesce resta a terra.
 
Gli uomini in mare le donne al banco
Il mare a metà

Affollano la spiaggia all’ora in cui rientrano le barche, colorano i mercati con i loro abiti sgargianti, seccano, salano e affumicano il pesce che finisce sulle tavole delle più remote zone dell’Africa Occidentale. Sono le donne impegnate nel settore della pesca, figlie, sorelle, mogli di pescatori. Si occupano di trattare con i grossisti il prezzo del pesce portato a riva dai loro uomini, di trasformarlo per conservarlo, di venderlo al mercato alle madri di famiglia o ai gestori degli hotel e dei ristoranti con i quali stipulano accordi settimanali di fornitura.
Le donne costituiscono oltre il 50% degli iscritti alla Fénagie e sono impegnate prevalentemente nella trasformazione del pesce. Sono tutte lavoratrici in proprio riunite in Gruppi di interesse economico che, non offrendo sufficienti garanzie per le banche, beneficiano dello specifico programma di microcredito della Federazione. Il denaro preso in prestito viene usato per acquistare tettoie per ripararsi dal sole, nuovi essiccatoi, forni in mattoni per l’affumicatura, bidoni per la bollitura del pesce, le minime attrezzature che vengono condivise da tutte le componenti del  Gruppo. Quella della trasformazione è un’economia di pura sussistenza: l’unico guadagno delle donne è spesso portare a casa una parte del pesce lavorato durante la giornata per sfamare la famiglia. In molti casi si tratta di donne che hanno lasciato i villaggi all’interno del Paese, avvicinandosi alla città in cerca di lavoro al seguito dei mariti che sbarcano il lunario con occupazioni di fortuna: vivono in baracche fatiscenti ai margini dei siti di lavorazione e riescono a stento a mandare a casa un po’ di pesce conservato ogni settimana per il sostentamento dei figli.
Anche le donne impegnate nella trasformazione del pesce risentono delle conseguenze provocate dalla progressiva riduzione delle risorse ittiche: le sardine, tradizionalmente destinate all’essiccazione e all’affumicatura, sono sempre più rare e quindi più costose. Adesso si riesce a lavorare al massimo tre giorni a settimana, perché spesso al mercato non arriva abbastanza pesce oppure quello che arriva è così poco che il prezzo lievita e quindi non è conveniente acquistarlo per lavorarlo.
Ciascuna donna riesce a lavorare fino a quattro casse di pesce da dieci chili al giorno, ciascuna delle quali  viene venduta a un prezzo di circa 1,5 euro: mediamente riescono quindi a guadagnare poco meno di 20 euro a settimana. Impossibile pensare a una casa in affitto a Dakar o all’acquisto anche dei fondamentali beni di consumo.
Interminabili ore di lavoro sotto il sole permettono giusto di sfamarsi.

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