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Inchiesta

Il segreto di Bankitalia

I dipendenti di via Nazionale che gestiscono la crisi di un istituto di credito e riscontrano dei reati sono tenuti alla discrezione. Il dl 180/2015 stabilisce che siano "vincolati dal segreto d’ufficio", aggiungendo: "hanno l’obbligo di riferire esclusivamente al Direttorio le irregolarità constatate", anche se queste avrebbero rilievo penale. Come potrà perciò collaborare attivamente l’istituto di via Nazionale ai lavori di un’eventuale “commissione d’inchiesta”, anche se dotata di poteri d’indagine?

Tratto da Altreconomia 178 — Gennaio 2016

"Pensionato suicida, Renzi: ‘Sì a commissione d’inchiesta’”. “Salva banche, Zanetti (Enrico, sottosegretario all’Economia, di Scelta civica, ndr): ‘Sì a commissione parlamentare di inchiesta su Bankitalia’”. “Banche: Forza Italia, sì a commissione d’inchiesta”. “Banche: M5s, sì commissione d’inchiesta”. Dopo il cosiddetto “decreto salva-banche” emanato dal Governo in una domenica di fine novembre, e le conseguenti proteste da parte di azionisti, obbligazionisti e risparmiatori, il coro a sostegno del “fronte della chiarezza” è stato pressoché unanime, acuito dal suicidio di un pensionato di Civitavecchia che ha perso i risparmi di una vita investiti in obbligazione della Banca popolare dell’Etruria. Pochi, però, si sono accorti che trasparenza e verità, in questa storia, rischiano di rimanere praticamente irraggiungibili, seppellite dal segreto. E non per mala fede, ma per volontà del legislatore.

Per capirlo è necessario fare un passo indietro a domenica 22 novembre. Per scongiurare il crac di quattro istituti di credito –Cassa di risparmio di Ferrara, Banca popolare dell’Etruria e del Lazio, Banca delle Marche e Cassa di risparmio della provincia di Chieti-, l’esecutivo e Banca d’Italia decidono di intervenire attraverso un “fondo di risoluzione” cui concorrono tutte le banche del Paese. L’obiettivo è ricostituire il capitale sociale di quattro nuove società, dette “ente ponte”. Non si tratta di un’idea estemporanea ma della traduzione in pratica di uno degli “strumenti di risoluzione” delle crisi del settore del credito previsti in una direttiva europea chiamata “BRRD” –Bank Recovery and Resolution Directive-, la 59 del 15 maggio 2014. La direttiva in questione è stata recepita dal nostro Paese solamente il 16 novembre di quest’anno, sei giorni prima del contestato “decreto salva-banche”, attraverso i 107 articoli del decreto legislativo 180.

Al terzo, Banca d’Italia è individuata come “autorità di risoluzione” nei confronti degli istituti di credito in panne, e al quinto è disciplinato il “segreto” -il titolo dell’articolo-. Essendo chiamato ad occuparsi di delicate “risoluzioni” in ambito creditizio, l’ente guidato da Ignazio Visco è tenuto per legge a mantenere sotto rigido “segreto d’ufficio” “tutte le notizie, le informazioni e i  dati  in  possesso […] in ragione della sua  attività  di  risoluzione”. Un obbligo opponibile a tutte le pubbliche amministrazioni, fatta eccezione in casi particolari per il ministero dell’Economia e delle finanze, guidato da Pier Carlo Padoan. Fortunatamente, però, “il segreto non può essere opposto all’autorità giudiziaria  quando le informazioni richieste siano necessarie per  le indagini o i procedimenti relativi a violazioni sanzionate penalmente”. Un argine ad eventuali impunità che parrebbe però decadere al comma successivo: “I dipendenti della Banca d’Italia sono vincolati dal segreto d’ufficio. Nell’esercizio delle funzioni di  risoluzione, essi sono pubblici ufficiali e hanno l’obbligo di  riferire esclusivamente al Direttorio le irregolarità constatate, anche quando assumono la veste di reati”. Un vincolo che è “allargato” a tutti coloro che fossero mai entrati in contatto con la “procedura” risolutiva. Dunque, riepilogando: recependo la direttiva BRRD si è stabilito che il “segreto” possa decadere soltanto dinanzi alla richiesta di informazioni “necessarie” per le indagini da parte dell’autorità giudiziaria, ma contemporaneamente che nessun dipendente o soggetto “interessato” possa mai riferire a chicchessia -eccetto al Direttorio di Banca d’Italia (composto da 5 persone, Ignazio Visco, Salvatore Rossi, Fabio Panetta, Luigi Federico Signorini, Valeria Sannucci)- alcuna “irregolarità”, anche se questa “assume la veste di reato”. Chi viola il segreto sarà perseguito per decreto in base all’articolo 622 del codice penale, “Rivelazione di segreto professionale”. Un reato rispetto al quale si procederà in questi casi d’ufficio, mentre fino ad oggi si agiva su querela di parte.

Come potrà perciò collaborare attivamente l’istituto di via Nazionale ai lavori di un’eventuale “commissione d’inchiesta”, anche se dotata di poteri d’indagine? Il “segreto” è già uno strumento a disposizione di Banca d’Italia: il Testo unico bancario (TUB), infatti, lo prevede in capo a dipendenti e funzionari di Banca d’Italia (articolo 7) anche se non indica sanzioni per chi lo viola. È un’eccezione in ogni caso per un pubblico ufficiale, il quale, stando al codice penale, è obbligato a denunciare reati (articolo 361, “Omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale”). Ma il punto è che quel vincolo di riservatezza era stato concepito per le “funzioni di vigilanza”, non di “risoluzione” -come invece ha automaticamente imposto il decreto del Governo-.
Una scelta che leggendo le 159 pagine della “fonte comunitaria” sembrerebbe assolutamente non obbligata. Tra le deroghe previste, infatti, ogni Stato membro avrebbe potuto “autorizzare lo scambio di informazioni” anche con “organismi di indagine”, compresa la Corte dei conti. L’Esecutivo ha preso una strada diversa.—

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