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Economia / Opinioni

Il risparmio sui conti correnti italiani e la lotta alle disuguaglianze

© Tim Evans - Unsplash

A gennaio del 2021 il totale della liquidità degli italiani ha raggiunto quota 1.167 miliardi di euro, record dall’adozione della moneta unica. Tra i beneficiari anche le principali società quotate, da Stellantis a Eni. Chi ha visto diminuire reddito e risparmi, invece, sono stati autonomi e precari. Come attivare un motore di giustizia sociale per la ripresa? L’analisi di Alessandro Volpi

Nel corso del 2020, il risparmio degli italiani sui conti correnti è cresciuto di 175 miliardi di euro, di cui 75 miliardi versati da singoli cittadini e da un centinaio da imprese. A gennaio del 2021, il totale della liquidità degli italiani ha raggiunto i 1.167 miliardi di euro. Si tratta della cifra più alta mai raggiunta dall’adozione dell’euro. Durante il 2020, intanto, il governo ha deliberato una cifra più o meno analoga in extradeficit per sostenere la spesa pubblica. In altre parole, mentre una parte del Paese risparmiava a livelli record, lo Stato erogava una montagna di finanziamenti pubblici, in larga parte coperti dalla Banca centrale europea, con l’obiettivo di contrastare la perdita di reddito di una porzione crescente degli italiani.

Il vero problema però nasce dal fatto che, nonostante questo sforzo, in Italia con la pandemia sono cresciute rapidamente le disuguaglianze sociali. Il reddito e i risparmi sono crollati nelle classi di età inferiori ai 65 anni, con una situazione decisamente più critica nella fascia compresa fra i 16 e i 49 anni, mentre, pur a fronte di una leggera riduzione del reddito, i risparmi sono aumentati nelle classi di età superiori ai 65 anni. Hanno visto diminuire reddito e risparmi, in particolare, il 60% degli autonomi e il 55% dei precari.

È abbastanza evidente, alla luce di ciò, che occorre attrarre almeno una parte degli oltre mille miliardi che sono nei conti correnti per finanziare un intervento pubblico in grado di combattere queste insostenibili disuguaglianze, destinate a generare un inevitabile scontro sociale. Un debito “italiano”, finanziato da risparmi italiani, remunerati con tassi contenuti e magari con una riduzione fiscale ulteriore potrebbe togliere dal congelatore risorse che una vera politica economica può trasformare in un motore per la giustizia sociale e per la ripresa.

Questa esigenza è resa avvertibile anche da un altro dato, altrettanto visibile. La liquidità nei conti correnti delle principali società industriali italiane quotate ha raggiunto i 54,5 miliardi di euro; ciò significa che nel 2020 tali società hanno aumentato, in media, del 36% il livello delle disponibilità a breve con alcune realtà che hanno decisamente superato tale percentuale. Stellantis ha incrementato la cassa del 58,8%, Eni del 57%, Ferrari del 51% e Cnh Industrial addirittura dell’80%. A proposito di ciò, sono possibili due considerazioni. La prima è costituita dal fatto che questa iperliquidità è stata largamente agevolata dalla politica monetaria della Bce -finalizzata a favorire gli investimenti non certo ad ingrossare i conti correnti- e dalle garanzie statali, di cui le grandi aziende hanno beneficiato. La seconda considerazione riguarda la resistenza delle principali società industriali italiane a svolgere una funzione anticiclica, in grado di contrastare gli effetti della più pesante crisi dal dopoguerra. Se neppure i colossi, ampiamente finanziati dalla Bce e sostenuti, a piene mani, dallo Stato, utilizzano le risorse di cui dispongono per operare per il rilancio del Paese, occorre davvero un cambio di passo nelle politiche economiche, anche perché, nel frattempo, quegli stessi colossi hanno pagato imponenti dividendi.

Immettere quasi 55 miliardi di euro nel circuito dell’occupazione e delle forniture produrrebbe un effetto importante ben prima degli attesi esiti miracolistici del Recovery Plan. La leva fiscale dovrebbe servire ad evitare che si generi il duplice paradosso di una enorme giacenza di liquidità nei conti correnti e, al contempo, la distribuzione di lauti dividendi azionari in un listino decisamente “elitario”, mentre lo Stato deve erogare miliardi di sussidi contro la disoccupazione e la povertà.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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