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Diritti / Opinioni

Il riformismo che conserva

Nel suo ultimo libro, Ugo Mattei si concentra sulla retorica delle “riforme” che ha animato gli ultimi trent’anni. A farne le spese, welfare e diritti civili _ _ _
 

Tratto da Altreconomia 148 — Aprile 2013

Ugo Mattei ha dedicato un pamphlet a una delle parole-chiave del nostro tempo: riforme (Ugo Mattei, “Contro riforme”, Einaudi 2013). E ha messo in evidenza la portata dell’operazione culturale compiuta nel trentennio neoliberale, cominciato grosso modo  con l’avvento al potere di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e Ronald Reagan negli Stati Uniti all’inizio degli anni Ottanta. Oggi chi parla di riforme, di necessità delle riforme, di riforme richieste dall’Europa e così via, intende cose ben precise: interventi di liberalizzazione e privatizzazione di beni e servizi, la riduzione della spesa pubblica, la progressiva esclusione dello Stato dall’economia. Si tratta, spiega Mattei, di una “sovversione” del concetto di riformismo, nato nell’ambito della sinistra storica come alternativa alla rivoluzione, ma con i medesimi intenti di lotta per l’emancipazione delle classi povere e per l’affermazione del socialismo sul capitale. Fra rivoluzionari e riformisti c’era una divergenza sui metodi, non sul fine. La sovversione semantica e politica del concetto di riformismo ha avuto effetti poderosi: è riuscita a far percepire come un’ovvietà (come si fa a non dirsi riformisti?), ciò che invece appartiene alla sfera dell’ideologia e dell’esercizio del potere, ossia l’umiliazione della sfera pubbica a vantaggio di quella privata, il primato del profitto e della rendita, la deregulation, l’assegnazione ai mitici “mercati” di una funzione di giudizio finale su ciò che è buono e ciò che non lo è.

Mattei sostiene che occorre “rigenerare” la politica attorno alla nozione di “beni comuni”, una prospettiva che va oltre la stessa dicotomia pubblico/privato e che oggi assume connotati addirittura più rivoluzionari che riformisti (nel senso originario, s’intende).
Non sarà facile imporre un cambiamento di rotta del genere, tanto è stato profondo il successo lessicale e politico del “nuovo” riformismo, ma certamente un cambiamento è necessario, sia per riprendere la strada dello stato di diritto e di quel sistema ad economia “mista”, tendenzialmente solidaristico, disegnato dalla Costituzione, sia per superare quella paralisi cognitiva che impedisce di valutare la recessione e la crisi di sistema che stiamo vivendo per quel che è, senza le lenti deformanti del “riformismo” neoliberale.
 

Considerazioni analoghe a quelle sviluppate da Mattei andrebbero applicate a un altro concetto chiave del nostro tempo, “sicurezza”. Anche in questo caso il cambiamento di senso è stato formidabile: da tempo non evoca più garanzie sociali e tutele sul posto di lavoro, bensì scudi e protezioni poliziesche da minacce esterne incombenti e presunte insidie interne. Anche in questo caso la distorsione nella percezione della realtà è radicale. Per dirne una, la trasformazione del nostro Paese in una società pluriculturale è stato interpretato in chiave di minaccia criminale causa immigrazione, escludendo ogni prospettiva di apertura al nuovo e di accoglienza solidale. Ci siamo abituati al razzismo spicciolo da conversazione quotidiana e a quello praticato dalle istituzioni; abbiamo accettato di trasformare il braccio di Mediterraneo che ci separa dal Nord Africa in un abisso di dolore e di morte. Tutto grazie all’enfasi posta sul concetto di sicurezza nella sua accezione neoliberale. L’ultimo esempio è di questi giorni. Il ministero dell’Interno ha dichiarato conclusa a fine febbraio la cosiddetta “emergenza Nord Africa”, avviata all’epoca della guerra in Libia. Qualcuno si ricorda? Roberto Maroni, allora ministro dell’Interno, parlò di “esodo biblico” verso le nostre coste, un messaggio irresponsabile che fu come al solito amplificato dai maggiori media (“esperti” della materia inclusi). Qualcuno parlò di 500mila, altri di un milione di profughi in vista. Arrivarono in realtà meno di 30mila persone e fu avviato, con grande ansia, un piano di accoglienza per profughi e richiedenti asilo che ora è stato dichiarato scaduto (salvo proroghe per i cosiddetti “vulnerabili”). Chiuse le strutture, fuori i diciottomila ospiti, con una dote, ciascuno, di 500 euro. Mandati in cerca di fortuna con cinque banconote da cento in tasca. Un invito a togliersi dai piedi. Con tanti saluti ai diritti civili, al principio di solidarietà e anche a quel po’ di umanità che persone in difficoltà meriterebbero di incontrare.
La tragedia dei profughi dalla Libia umiliati e offesi, naturalmente, non ha fatto notizia per i grandi media, non ha minimamente preoccupato le forze politiche,  è stata registrata come un fatto minore, un episodio poco rilevante senza particolari implicazioni sociali e morali. La lente della “sicurezza” non permette di cogliere certe sfumatore. La ragione è presto detta. Questo Paese ha ben altre priorità: le riforme. “Più riforme, più sicurezza”. E viceversa. Per dirla con Mattei, sovversione si somma a sovversione. —

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