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Ambiente

Il prezzo della sostenibilità

Tutto ha un prezzo, secondo l’economia convenzionale. Che non riesce a percepire la differenza che esiste tra valore intrinseco e valore economico. L’unico modo per salvare il mondo, dicono i think tank neoliberal, è attaccarci un cartellino del prezzo e vedere che succede, poco importa se gli effetti saranno diversi rispetto a quelli dichiarati. Il movimento dei popoli indigeni lancia la Carta di Rio con domande e proposte ben precise. Ma le risposte, se arriveranno, potrebbero essere deludenti

"Il 20% dei Paesi più ricchi genera il 60% delle emissioni, i Paesi più poveri solo lo 0.72%". Le parole sono di Rafael Correa, presidente dell’Ecuador, durante la passerella dei Capi di stato, "questa è una delle maggiori ingiustizie planetarie. E’ affascinante avere salvataggi multimilionari per le banche. Ma dobbiamo salvare anche l’ambiente. Come farlo? Con il pagamento del debito ecologico dei Paesi più ricchi".
Il concetto è chiaro. E buona parte della società civile mondiale non avrebbe obiezioni. Ma c’è una domanda, invisibile ai più ma molto chiara ad alcuni, che rimane inevasa: come pagare questo debito contratto in decenni di sfruttamento delle risorse di mezzo mondo? Su questo le opinioni si moltiplicano, ma da Rio+20 la risposta rischia di essere unica. Dandogli un prezzo, come ha persino sottolineato la Banca Mondiale nel maggio scorso, in una conferenza a Seoul.
L’economia convenzionale non riesce a tenere in conto nulla che non sia monetizzabile. E’ il senso della tragedia dei Commons, i beni comuni, e della loro continua dissipazione perchè dove non c’è prezzo non c’è valore. E soprattutto non ci sono asset su cui investire e da cui estrarre ulteriore valore economico.
Questo è uno degli elementi di criticità di questo momento storico. I grandi vincitori di questo ventennale dell’Earth Summit di Rio, in verità, sono le grandi imprese e gli investitori finanziari.
Le prime, perchè si è ribadito in Brasile e si è fatto eco al G20 messicano, che la Green Economy è approccio non vincolante e libertà d’impresa e che la strada prossima ventura sarà un rafforzamento delle partnership con il pubblico (e le Nazioni Unite). I secondi perchè i nuovi meccanismi di mercato per proteggere il "capitale" naturale si appoggiano sulla nuova architettura finanziaria e sulla sua volontà di mettere mano, e portafoglio, sugli ecosistemi.
Si è iniziato con il mercato dei crediti di carbonio, assolutamente fallimentare nel mercato europeo (l’Emission Trading Scheme) dove la sovrabbondanza di crediti di emissione, oltre 900 milioni, sta abbassando esponenzialmente il prezzo della CO2. E soprattutto si è cominciato con i Clean Development Mechanisms, la possibilità cioè che ha un’impresa di ricevere crediti di emissione, e quindi continuare ad inquinare, se sostiene un progetto di sviluppo pulito in qualche altra parte del mondo. Un gioco che potrebbe essere anche a somma zero, non portando alcun beneficio effettivo alla lotta al cambiamento climatico.
Se poi i progetti CDM presentano forti criticità, come ha denunciato da Rio de Janeiro l’Organizzazione internazionale Focus on the Global South con il lancio del report "Whose Clean Development" per lo sviluppo di impianti idroelettrici o a biomasse in sud est asiatico, allora il quadro comincia a complicarsi.
Anche perchè all’interno del quadro CDM a volte rientrano anche i cosiddetti "sink" di carbonio, cioè e foreste che per loro caratteristica sono assorbitori netti di CO2. Elemento di centrale importanza per lo schema REDD (Reducing emissions from deforestation and forest degradation) ben conosciuto all’interno dei negoziati climatici e presente anche nelle discussioni di Rio.
Quale sia la criticità dello schema REDD lo chiarisce molto bene Melanie Heath, Senior Advisor su climate change dell’Ong Birdlife International, secondo la quale "valutare una foresta solamente per il suo contenuto in carbonio è come considerare un chip di un computer solo sulla base del suo contenuto in silicio". Perchè le foreste sono biodiversità, culture indigene e varietà locale, e contabilizzare il ruolo  di un ecosistema solo come un costo da pagare o un credito da pretendere potrebbe essere problematico.
E’ quello che i rappresentanti dei movimenti indigeni, (APIB – Articulation of Indigenous Peoples of Brazil, COICA – Coordinator of Indigenous Organizations of the Amazon Basin, IOTC – Andean Coordinator of Indigenous Organizations, CICA – Indigenous Council of Central America, and CCNAGUA – Guarani Continental Council of the Nation) hanno ribadito dalla Cupula dos Povos, rilanciando la loro Carta di Rio, che è stata portata fino davanti al Centro Conferenze, davanti ad uno schieramento di polizia senza precedenti.
Riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni; lo stop ai megaprogetti come la diga di Belo Monte, spacciata dal ministro delle finanze brasiliano come un’opera sostenibile degna della migliore Green Economy; stop ai meccanismi di mercato per clima ed ambiente. Questa la domanda dei movimenti indigeni.
La risposta, simbolica, arriva oggi da Hillary Clinton. Che annuncia il lancio di nuovi meccanismi finanziari per lo sviluppo soprattutto in Africa di energia pulita, capaci di catalizzare l’interesse dei provati. Tutto in collaborazione con Overseas Private Investment Corporation, l’istituzione finanziaria del Governo Usa che ha l’obiettivo di "aiutare le imprese a guadagnare terreno nei mercati emergeni, catalizzando risorse ed opportunità di crescita e di occupazione" sia negli Usa che all’estero.
Mai risposta sarebbe potuta essere più chiara.

 

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