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Il prezzo del greggio e il “premio di guerra” – Ae 36

Numero 36, febbraio 2003In condizioni di “mercato libero” le quotazioni sarebbero ai minimi. Perché allora i prezzi vanno alle stelle mentre frenano i consumi e la domanda internazionale? Speculatori e petrolieri: l'unione fa la forzaIl 2003 si è aperto con…

Tratto da Altreconomia 36 — Febbraio 2003

Numero 36, febbraio 2003

In condizioni di “mercato libero” le quotazioni sarebbero ai minimi. Perché allora i prezzi vanno alle stelle mentre frenano i consumi e la domanda internazionale? Speculatori e petrolieri: l'unione fa la forza

Il 2003 si è aperto con il petrolio in forte rialzo sui mercati, sopra i 30 dollari al barile. Anche il 2002 si era aperto a Londra e New York con quotazioni petrolifere all'insegna del rincaro. La seduta del 2 gennaio 2002 si era infatti chiusa con il Brent (greggio di riferimento a Londra) e il Wti (greggio di riferimento a New York) su livelli vicini ai 21 dollari. Ma c'è rincaro e rincaro.

Nel 2002, a sostenere le quotazioni era la politica di limitazioni della produzione promossa dall'Opec. Eppure l'apertura dell'anno era stata caratterizzata dal pessimismo: sul mercato londinese la fine del 2001 aveva fatto registrare una quotazione sotto la soglia psicologica dei 20 dollari, a 19,90. Ossia il 18 per cento in meno rispetto all'inizio dell'anno.

I timori degli analisti riguardavano soprattutto gli esiti della crisi economica statunitense, che avrebbe potuto deprimere ulteriormente i consumi. E, di conseguenza, la domanda e le quotazioni del greggio, portandole -così almeno si ipotizzava- intorno al livello dei 18 dollari.

Malgrado le aspettative, il 2002 si è chiuso con il greggio sopra i 30 dollari, quasi il doppio delle previsioni. Come può aumentare il prezzo di un prodotto del quale i consumi e la domanda sono in frenata?

Il Financial Times in edicola il 28/29 dicembre ci consegna una chiave di lettura: “Lo sciopero in Venezuela e la paura della guerra mandano il prezzo del petrolio sopra i 30 dollari”. È una sintesi di quanto avvenuto, specialmente negli ultimi due trimestri dell'anno. E mette a nudo l'interdipendenza tra politica e petrolio. Il fattore-Venezuela e il fattore-Iraq sono stati certamente determinanti sul rialzo delle quotazioni, e sempre in modo combinato. Ma ancor più lo è stata la crisi israelo-palestinese, detonatore delle altre tensioni, intrecciate tra loro e saldate in una reazione a catena globale che ha conosciuto momenti di alta drammaticità tra marzo e aprile, con picchi in coincidenza dell'invasione israeliana di Ramallah (29 marzo), della strage compiuta a Jenin (9 aprile) e -in un'altra area importante della geografia energetica- del tentato golpe in Venezuela (12 aprile).

In uno scenario soggetto a simili turbolenze, a fine marzo si sono inserite le notizie sui movimenti di truppe statunitensi nel Golfo Persico, tendenti ad accreditare l'ipotesi di un imminente attacco all'Iraq.

Le quotazioni sono state così sospinte dai “venti di guerra” fino ai 26 dollari al barile e oltre.

Leo Drollas, chief economist del “Centre for Global Energy Studies”, giudicava già elevato quel prezzo, perché indipendente dai fattori domanda/offerta, ma pronosticava che si sarebbe mantenuto su livelli analoghi. In altri termini, le leve della speculazione e della geopolitica avrebbero continuato ad agire in modo determinante.

Il rialzo del prezzo era peraltro doppiamente alterato, poiché ad innescarlo era stata -oltre alle tensioni internazionali- la diffusione dei dati macroeconomici statunitensi relativi al quarto trimestre del 2001, in quel caso positivi. I mass media ne avevano tratto argomenti per annunciare trionfalmente il superamento della crisi. Ma, come sappiamo, le cose sono andate in maniera diversa: la fiducia dei consumatori ha continuato a diminuire, la disoccupazione a crescere, sono stati deboli gli investimenti e la produzione industriale, il dollaro sull'euro è sceso ai minimi storici, è andato molto male il mercato azionario.

Anche Paul O'Neill e Lawrence Lindsay, massimi responsabili governativi della politica economica statunitense, devono averne risentito. Il 6 dicembre del 2002 George W.Bush li ha licenziati. Intanto però quei dati avevano fatto sperare in un rilancio delle richieste di greggio. Il che ha indotto i fondi d'investimento ad intensificare gli acquisti, contribuendo al rincaro.

Il 29 gennaio 2002 (praticamente un anno fa) George W. Bush ha parlato per la prima volta dei pericoli provenienti dal cosiddetto “asse del male”, comprendendovi Iraq, Iran e Corea del Nord. A febbraio aveva cominciato a far circolare ipotesi e smentite su di un piano di attacco degli Usa contro Baghdad. Dal mese di marzo ha poi ulteriormente alzato la tensione, dando il massimo risalto pubblico ai preparativi di guerra. In questo contesto, il superamento della quota di 27 dollari è stato ottenuto il 1 aprile, quando Sharon ha mandato i suoi carri armati a Tulkarem e Betlemme, proclamandosi in guerra contro il terrorismo e inneggiando alla vittoria finale. Il greggio è arrivato allora al massimo semestrale, in controtendenza con la fine del 2001. Un dato preoccupante per consumi, profitti, investimenti e produzione industriale, ma per le compagnie petrolifere il ritorno a utili da capogiro.

Ad aprile il fenomeno si è definito ancora meglio: il prezzo tendeva a oltrepassare i 25 dollari. I rialzi non erano determinati da un aumento della domanda (o da una scarsità dell'offerta) ma dal rischio di guerra e dalla paura di un possibile, futuro rincaro del greggio: è il cosiddetto il war premium.

Gli investitori degli hedge funds hanno scommesso allora sulle prospettive di rialzo, acquistando massicciamente e contribuendo a gonfiare ulteriormente la domanda. È l'altra faccia del war premium, il “premio di guerra”, quella speculativa.

Nei tragici giorni dell'assedio israeliano alla basilica della natività di Betlemme il prezzo rimaneva abbondantemente sopra quota 27, con il “premio di guerra” stimato di volta in volta tra i 5 e i 7 dollari e gli speculatori lanciati in gigantesche prese di profitto. Ciò mentre la domanda di petrolio era bassa per due motivi: il clima, eccezionalmente mite in quelle settimane, con la conseguente riduzione dei consumi per riscaldamento, e la contrazione dei consumi di jet fuel, generata dalla perdurante crisi del trasporto aereo.

Nel secondo trimestre dell'anno i consumi mondiali sono leggermente saliti, soprattutto grazie alla maggiore richiesta cinese. I prezzi hanno registrato questo e vari altri fenomeni: la diminuzione delle pressioni speculative, l'alto livello delle scorte, un'ampia offerta proveniente da Opec e Russia, un momentaneo allentamento della tensione in Medio Oriente. Ci si poteva aspettare un ribasso delle quotazioni, il che, almeno inizialmente, è avvenuto.!!pagebreak!!

Ma in questo quadro si è inserito un fatto nuovo: Baghdad l'8 aprile, per protestare contro l'occupazione dei territori palestinesi, ha proclamato la sospensione delle proprie esportazioni di greggio per un mese. In realtà l'interruzione di questo flusso di circa 2 milioni di barili al giorno poteva essere compensata agevolmente dalla capacità estrattiva addizionale degli altri produttori. Perciò non avrebbe inciso in alcun modo sul mercato. Ma il semplice annuncio dell'embargo -potenza della parola- ha prodotto un rialzo delle quotazioni.

Inoltre, quattro giorni dopo, dall'altra parte del globo, è scattato il colpo di Stato (poi fallito) contro il presidente venezuelano Hugo Chavez. Un golpe d'altri tempi, salutato dal plauso troppo tempestivo della Casa Bianca, poi costretta a imbastire penose ritrattazioni.

Ai primi di maggio, un calo transitorio della tensione tra israeliani e palestinesi e la fine dell'embargo iracheno hanno favorito un temporaneo ritorno della quotazione verso i 25 dollari, con il “premio di guerra” ridotto a 2. Ma a metà del mese il prezzo raggiungeva un altro rialzo record, toccando a New York i 29 dollari, punta massima nell'arco di undici mesi. Fra le cause del nuovo picco, con un war premium tornato tra i 3 e i 6 dollari, gli acquisti cautelativi indotti dai timori di una riduzione delle scorte Usa, effetto differito dell'embargo iracheno. Poi intervenivano a riportare la quotazione verso i 25 dollari l'annuncio russo di incrementi nella produzione e nell'esportazione e l'accettazione irachena del nuovo programma oil for food, che permetteva a Baghdad di vendere greggio per acquistare beni di prima necessità.

A metà giugno le quotazioni sono scese sotto i 25 dollari: qui, a favorire il ribasso, è stata la pubblicazione dei dati positivi sulle scorte statunitensi e dall'abbondanza dell'offerta sia dell'Opec che della Russia.

Il trend è sembrato interrompersi a fine mese, quando il quotidiano inglese Guardian ha rilanciato le voci di un imminente attacco all'Iraq, indicando alcuni dettagli di un piano d'invasione che avrebbe dovuto attuarsi in ottobre e in funzione del quale la Boeing e altri produttori statunitensi lavoravano alla costruzione di un congruo numero di apposite “bombe intelligenti”.

Se l'invasione di ottobre doveva rivelarsi fantastica, su di essa trovava fondamento la realtà delle commesse militari. Così come una nuova impetuosa tendenza al rialzo del greggio, salito il 20 agosto oltre i 30 dollari e attestatosi successivamente ora nella parte alta della banda 22-28 dollari ora al di sopra di essa, con piena soddisfazione di petrolieri e speculatori, talvolta coincidenti.

La metà di novembre ha inaugurato un nuovo minitrend al ribasso, fin sotto i 25 dollari, interrotto a fine mese da nuove schermaglie verbali e da raid aerei contro l'Iraq.

Con dicembre infine è ripresa decisamente la tendenza al rialzo, rafforzata dalle agitazioni in Venezuela. Le quotazioni sono così tornate a impennarsi oltre i 30 dollari il 19 dicembre, spinte come al solito dagli acquisti dei fondi d'investimento Usa, “preoccupati” dalla crisi irachena.

L'ultima settimana dell'anno ha fatto poi registrare un record biennale. Il 26 dicembre, il Wti per scadenza febbraio è stato quotato a New York sopra i 32,40 dollari. Questo mentre le componenti fisiche del mercato vedevano uno sbilanciamento continuo del rapporto tra offerta in eccesso e domanda in stagnazione.

In condizioni di mercato “libero”, le quotazioni sarebbero addirittura sprofondate.

Se si esamina la politica estera degli Stati Uniti attraverso la lente delle sue conseguenze economiche, è evidente l'effetto rialzista che essa ha avuto sul corso delle quotazioni petrolifere, soprattutto per il periodo compreso tra luglio e ottobre del 2002 e contestualmente all'approvazione di un budget militare record dell'importo di 355,4 miliardi di dollari (23 ottobre).

Il maggiore intervento statale a favore del complesso militare-industriale dalla presidenza Reagan.

Industria militare ed energetica sono dunque i cavalli da cui viene trascinato per i territori della crisi il carro dell'economia statunitense. La guerra è la biada.

Più che offrire conta speculare
Gli scambi petroliferi avvengono attraverso due sistemi diversi: il mercato fisico, o spot (con sede a Rotterdam) ed il mercato a termine, o future (con sedi principali a New York e Londra). Il future è uno scambio “prezzo per data”, in cui chi scommette su un certo prezzo per una certa scadenza può ottenere sostanziosi guadagni rivendendo poi il greggio -a scadenza raggiunta- sia sul mercato a termine sia sul mercato fisico, beneficiando dei rialzi intervenuti nel frattempo. Oppure, inversamente, deve fare fronte a prezzi ribassati. Nel qual caso ovviamente ci perde. Il tutto comunque favorisce un'intensa movimentazione tipicamente speculativa, con fasi alterne tra acquisti e vendite di realizzo.

Le compravendite speculative abbondano specialmente negli scambi spot. Gli operatori finanziari sono capaci di spostare masse ingenti di investimenti ora sugli acquisti ora sulle vendite. Il che condiziona il prezzo -innervosendolo- ancora più dell'interazione “classica” tra domanda e offerta.

In genere, il petrolio viene scambiato meno nella transazione spot che in quella future. Tuttavia, il mercato spot costituisce il riferimento per quello a termine, che tende a seguirne l'andamento e perfino gli umori. Negli scambi spot il peso della speculazione è peraltro determinante. Ne consegue uno strapotere delle dinamiche speculative sull'intera struttura del mercato energetico.

Un esempio: dopo l'11 settembre i fondi d'investimento hanno venduto massicciamente, contribuendo così in modo decisivo alla discesa del prezzo fino ai 17 dollari. Poi hanno aspettato gennaio e febbraio, mesi in cui è peraltro salita alle stelle la tensione tra Israele e Autorità nazionale palestinese. A marzo hanno ripreso l'iniziativa, sfruttando l'onda delle tensioni mediorientali, muovendo la leva degli acquisti e riportando il prezzo verso l'alto. Così, nel giro di tre settimane la quotazione ha raggiunto i 25 dollari.

Si è stimato che l'effetto di amplificazione sortito dalla speculazione fosse nell'ordine dei 2-4 dollari. Naturalmente, chi avesse comprato con il prezzo a 17 dollari, avrebbe poi potuto rivendere dopo tre settimane a 25, guadagnando 8 dollari per barile.

Il che è molto, anche se non è tutto. Perché a questa onda di proventi speculativi, cui non corrisponde alcuna attività industriale, si aggiunge sempre una seconda onda di profitti -non meno importanti- generati dai mercati azionari, dove ogni rialzo delle quotazioni del petrolio induce conseguenti rialzi dei vari titoli appartenenti alle compagnie petrolifere.

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