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Economia

Il pianeta alla prova – Ae 87 –

Il cambiamento climatico è inevitabile. Ma non deve diventare ingestibile. Una questione anche di stili di vita: contrarre i consumi e ridurre la nostra “impronta ecologica” deve essere una scelta strategica Tre giorni. I tempi dell’agricoltura -quelli della semina, del…

Tratto da Altreconomia 87 — Ottobre 2007

Il cambiamento climatico è inevitabile. Ma non deve diventare ingestibile. Una questione anche di stili di vita: contrarre i consumi e ridurre la nostra “impronta ecologica” deve essere una scelta strategica


Tre giorni. I tempi dell’agricoltura -quelli della semina, del raccolto, la vendemmia- si spostano. Arrivano in anticipo, tre giorni ogni dieci anni. L’uomo ha alterato il ritmo della natura. Ma non è solo questa la conseguenza dei cambiamenti climatici. Desertificazione, siccità, uragani, mari che si impoveriscono. Increduli, ci siamo abituati all’allarme, alla minaccia di catastrofe. E tutti a chiedersi se ormai sia troppo tardi. Il riscaldamento globale è una certezza. Lo è anche il fatto che sia causato dall’uomo: l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), composto da centinaia di scienziati provenienti da tutto il mondo afferma che la correlazione tra cambiamenti climatici e attività umane è probabile al 95 per cento. Scommettereste su quel 5 per cento che rimane, negando questa evidenza?

Questi sono gli anni della consapevolezza, gli anni in cui si deve agire. Oggi l’umanità deve gestire ciò che ormai è inevitabile, cioè il riscaldamento globale, ma anche evitare l’ingestibile, cioè le conseguenze estreme che si verificheranno se non sapremo intervenire per tempo. Oggi tutto questo è un dato acquisito anche dall’opinione pubblica. Non era così quando nacque l’Ipcc (nel 1988), non quando venne elaborato il protocollo di Kyoto (1997) che impegnava i firmatari a tagliare le proprie emissioni di gas “climalteranti”, prima fra tutti la CO2. Nel 2000 pubblicammo un’inchiesta dedicata proprio a Kyoto e agli impegni disattesi dalla politica. “Contro l’effetto serra solo parole” scrivevamo. Quelle parole, cui non sono seguiti fatti per molto tempo, le ascoltiamo anche adesso. Da allora, praticamente ogni mese, abbiamo raccontato l’emergenza ambientale e la necessità di intervenire. Nel gennaio 2003 pubblicammo un lungo dossier intitolato “Un clima difficile. Verso il disastro in ordine sparso”. Denunciavamo l’immobilità dei governi, preoccupati di difendere gli interessi di pochi piuttosto che il bene collettivo. Ma non viviamo solo una crisi climatica. L’illusione di un pianeta capace di risorse infinite è tramontata. Ci scontriamo invece con i limiti biofisici dello sviluppo, e con la scarsità di risorse. Consumiamo troppo, più di quanto la Terra possa sopportare. La nostra “impronta ecologica” è sproporzionata, e l’affacciarsi di Paesi emergenti, che mirano al tenore di vita occidentale, accresce la preoccupazione. Lavoriamo per una transizione verso una società sostenibile. Tuttavia deve essere detto chiaramente, e noi abbiamo provato a farlo, che l’ecologia non esiste senza equità, che non si può chiedere giustizia nel mondo senza preservare l’ambiente. Oggi la biosfera conta più della geopolitica. Viviamo in una condizione di “mutua vulnerabilità”, come spiega il Wuppertal Institute, in cui le azioni di ciascuno si ripercuotono sull’intero pianeta.

Ci troviamo di fronte all’esigenza di contrarre i consumi del Nord del mondo, e di fare convergere quelli del Sud.

Per questo l’urgenza ci impone di reinventare un benessere capace di giustizia,  in un’economia che sia “leggera” di risorse.

Vuol dire stare bene tutti, non tornare al Medioevo.

In questi stessi anni, affrontiamo una difficile transizione verso un’economia post-fossile, un’era dove non c’è più energia a buon mercato. Il petrolio ha raggiunto a metà settembre il record di 81 dollari al barile: inizia a essere troppo costoso estrarlo. Il gas sembra essere divenuta la nuova arma politica dei Paesi detentori delle riserve nei confronti dei grandi consumatori, e tra questi c’è l’Italia. Eppure la domanda di energia cresce, anche da noi, di anno in anno, come se nulla fosse. Consumiamo energia elettrica per far funzionare i condizionatori e difenderci dal caldo causato anche dalle emissioni delle centrali elettriche. Un paradosso.

Si può rispondere in vari modi a questa condizione critica. Si può risolvere la scarsità con l’esclusione: difendendo il proprio stile di vita, le proprie risorse, accaparrandosi quelle altrui.

La guerra è lo strumento di questo atteggiamento. Più di una volta abbiamo denunciato la politica di rapina condotta con i carri armati, e come ogni conflitto può essere descritto in termini economici. La guerra per il petrolio in Iraq, l’assalto alle risorse minerarie e forestali della Repubblica Democratica del Congo, la crisi del Delta del Niger.

Oppure si può provare a “espandere l’offerta”. Ecco perché ci sono tante pressioni per tornare all’energia nucleare, al carbone, o l’invocazione di inceneritori di rifiuti. In questo atteggiamento il non detto, che vale la pena di rendere invece esplicito, è che i cambiamenti climatici sono il costo (tutto sociale) del mantenimento dello stile di vita, dei consumi, e dei guadagni delle grandi multinazionali dell’energia.

Ma si può anche ridurre la domanda. Puntare sulle fonti rinnovabili e sul risparmio energetico. Coniugare efficienza e sufficienza. In questi anni abbiamo sostenuto questa soluzione, e raccontato che è possibile mantenere il proprio comfort consumando meno e rispettando l’ambiente, e continueremo a farlo. Crediamo che l’informazione giochi un ruolo strategico in questo delicato passaggio di millennio: negli anni novanta i grandi media economici deridevano le posizioni ambientaliste, oggi suggeriscono di investire nell’eco-business. Allo stesso modo la politica dovrà rispondere, come finora non ha fatto, alle urgenze ecologiche, guardando oltre le miopi contingenze elettorali. Perché non c’è bisogno di essere politicamente estremisti per fare scelte radicali. Ma necessarie.



Il commento

Risposte rinnovabili

di Francesco Tedesco*



Negli ultimi cento anni la temperatura media terrestre è aumentata di circa un grado centigrado. Gli undici anni più caldi del pianeta si sono verificati dal 1995 ad oggi. L’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) si aspetta che entro la fine del secolo la temperatura media terrestre potrà aumentare di 3 gradi, superando il limite di più 2 indicato come soglia di irreversibilità del fenomeno. L’Ipcc ha anche riaffermato, come già indicato dal rapporto Stern dello scorso ottobre 2006 (vedi Ae n.80), che i costi economici da sostenere oggi per realizzare interventi di mitigazione e adattamento sono circa 20 volte inferiori ai costi dovuti agli impatti futuri del fenomeno. Se le emissioni di gas serra raddoppiassero al 2050 –come prevede l’International Energy Association- sarebbe il collasso climatico. Già oggi sappiamo che per fermare i cambiamenti climatici le emissioni mondiali di gas serra devono essere dimezzate entro il 2050. È una sfida contro il tempo, ma non è una sfida impossibile. Il rapporto “Energy [R]evolution. A sustainable World Energy Outlook”, (www.greenpeace.it/energyrevolution) è la prima strategia globale su come ristrutturare il sistema energetico mondiale puntando su efficienza energetica e fonti rinnovabili. Da solo l’eolico potrà soddisfare circa un terzo dei consumi elettrici mondiali al 2050.

Con l’efficienza energetica si potranno abbattere i consumi mondiali del 47%. Le fonti di energia rinnovabile sono sufficienti per soddisfare il 75% circa dei consumi rimanenti. L’industria è pronta a raccogliere questa sfida, favorendo l’innovazione e nuova occupazione. Il carbone invece è il nemico numero uno del clima a livello globale. Supportare lo sviluppo del carbone oggi significa compromettere la possibilità di contrastare la prima minaccia ambientale di questo secolo. Abbiamo 15 anni al massimo per stabilizzare le emissioni di gas serra e limitare i peggiori impatti dei cambiamenti climatici al 2070.



* Coordinatore campagna “Clima ed energia” di Greenpeace



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