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Ambiente

Il petrolio dalla terra

Nella foresta tropicale del Congo, Eni devasta campi coltivati per inseguire il sogno di nuovi giacimenti. Senza alcuna considerazione per l’impatto sull’ambiente e le popolazioni locali, che vivono lì dal 1664 La storia delle sabbie bituminose in Congo assomiglia a…

Tratto da Altreconomia 105 — Maggio 2009

Nella foresta tropicale del Congo, Eni devasta campi coltivati per inseguire il sogno di nuovi giacimenti. Senza alcuna considerazione per l’impatto sull’ambiente e le popolazioni locali, che vivono lì dal 1664

La storia delle sabbie bituminose in Congo assomiglia a una di quelle leggende di cui tutti parlano ma a cui nessuno, alla fine, dà peso.
Una storia incredibile che dal maggio dello scorso anno è riemersa dalla memoria di molti dopo che i giornali di tutto il mondo hanno scritto dell’accordo da oltre 4 miliardi di dollari firmato dall’Eni con il governo congolese. Accordo che include tra le altre cose proprio il diritto a esplorare quel petrolio in forma solida, situato quasi in superficie e mescolato al terreno sabbioso delle foreste nel Sud-ovest del Congo. Un progetto estremamente costoso e ad alto impatto ambientale, che poteva prendere concretezza solo grazie a una convergenza particolare come quella dei primi mesi del 2008, quando al prezzo del greggio oltre i 100 dollari al barile si unì “la pressione da riserve”, che anche Eni, come molte altre compagnie petrolifere, si è sentita addosso. Da decenni in Congo si racconta che con il bitume che si trova sotto la foresta si potrebbe costruire una strada per unire Pointe Noire, la città del petrolio situata sulla costa, a Sud del Paese, alla capitale Brazzaville, detta “la verde”, perché nel cuore tropicale del Congo. Un vecchio sogno del presidente Sassou, che da qualche mese però, tra lo stupore di molti, sta prendendo forma. In Congo, infatti, si dice oggi che “i cinesi stanno costruendo la strada”, e che un varco si sta aprendo nella fitta foresta tropicale alle spalle di Pointe Noire verso la zona delle esplorazioni petrolifere. Alla storia del bitume nella foresta invece i più continuano a non volerci credere, fermi tra l’interdizione e il disappunto.
L’area della concessione dell’Eni è più vasta del territorio di diverse province italiane: 1790 km2 di foresta tropicale e primaria, ricca di biodiversità e abitata da decine di migliaia di persone e da diverse generazioni dei loro avi, che secondo il senso comune sarebbe folle sacrificare per tirare fuori quel bitume. Una delle comunità colpite dalla maledizione del petrolio è quella di M’boukou, a circa 40 chilometri da Pointe Noire, dove Eni detiene il diritto di esplorazione sia del petrolio che delle sabbie bituminose. A M’boukou vivono oggi oltre 8mila persone in una comunità fondata nel 1664, quando gli antenati penetrarono nella foresta e decisero di installarsi lì, iniziando la coltivazione della manioca, dei banani, della palma da olio e di decine di altre piante e alberi da frutto, in costante scambio con la foresta tropicale che da sempre ne abbraccia il territorio.
M’boukou e altre sette comunità già soffrono l’impatto delle esplorazioni di petrolio che Eni sta conducendo dal 2007, dopo l’acquisto degli impianti e dei diritti di esplorazione della francese Maurel & Prom e l’acquisizione, nel 2008, dell’inglese Burren Energy. E adesso la minaccia è che proprio in mezzo a quella foresta si apra una miniera a cielo aperto come quelle della regione di Alberta in Canada, l’unico altro luogo al mondo dove si stanno esplorando le sabbie bituminose su grande scala (vedi box).
Ad oggi non è chiaro quale sia la qualità e la quantità del bitume presente nel territorio della concessione, né la profondità a cui si trova o il metodo che Eni intenderà eventualmente utilizzare per l’estrazione. Dopo il lancio mediatico dello scorso anno l’impresa non ha più fornito informazioni in merito al progetto. Nemmeno alle comunità locali situate all’interno della concessione, che da qualche tempo guardano preoccupate ai movimenti di Eni: le ruspe mandate dall’azienda italiana hanno già aperto enormi varchi nella foresta, passando in mezzo alle terre coltivate delle comunità e arrecando non pochi danni laddove la compagnia ha iniziato a prelevare campioni di sabbie più in superficie e a svolgere i test sismici. Nelle comunità si sentono le esplosioni di dinamite, mentre decine di punti sono già stati segnalati con bastoni e nastri colorati dai tecnici inviati da Eni nel territorio coltivato dalle famiglie di M’boukou e delle comunità limitrofe.
Fino ad oggi nessuno è stato informato delle esplorazioni in corso, e non si parla ancora di compensazioni per le perdite già subite. L’assenza di una politica di consultazione delle comunità dalle primissime fasi del progetto è un segnale che viene visto con molta preoccupazione dalle organizzazioni della società civile congolese che da anni lavorano con le comunità impattate dalle estrazioni petrolifere. A partire dalla Commissione giustizia e pace di Pointe Noire, organizzazione cattolica impegnata nel monitoraggio delle attività delle compagnie petrolifere nella regione, e dell’Incontro per la pace e i diritti umani (Rpdh), che opera per la giustizia economica e sociale nelle comunità “impattate” dall’estrazione petrolifera, e che in un rapporto uscito lo scorso anno ha denunciato i gravi impatti ambientali e sulla salute delle comunità in cui opera Eni. Dal suo sbarco a terra, dopo diversi decenni di estrazione off-shore nelle acque congolesi, l’impresa del cane a sei zampe ha causato non pochi problemi a chi ha avuto la sfortuna di trovarsi all’interno delle sue concessioni. Come gli abitanti di M’boundi, a pochi chilometri da M’boukou, che vivono a poche centinaia di metri dai boati di due enormi fuochi a cielo aperto, dove ogni giorno il gas naturale che esce assieme al petrolio brucia ventiquattr’ore su ventiquattro. “Un fuoco -racconta una donna del villaggio- che diventa più grande la notte”, quando aumentano le esplosioni, la terra trema e -secondo chi vive a M’boundi- oltre al gas l’Eni brucia altro, forse i rifiuti della lavorazione e quanto raccolto dalla pulizia delle cisterne.
A causa del gas flaring, l’acqua piovana, unica risorsa di acqua dolce nel villaggio, non si può più raccogliere: le piogge sono acide e assieme all’acqua nelle bacinelle di M’boundi e delle località vicine si deposita una chiazza nera e oleosa. Le piante di manioca si seccano e nella comunità sono sempre più diffuse malattie respiratorie e polmonari, irritazioni cutanee soprattutto nei bambini, mal di testa cronico, e affezioni delle mucose oltre che diarrea e altre malattie derivate dal consumo di acqua inquinata. In queste terre dove la vita è sempre più difficile, nessuno crede più ai benefici del petrolio. E se dal Canada arriva la richiesta di una moratoria delle esplorazioni di sabbie bituminose (fino a quando le compagnie dimostreranno di avere le tecnologie adatte a contenere gli impatti ambientali e sociali delle operazioni), in Congo oggi si guarda con preoccupazione agli impatti già visibili. Pensando che se in Canada va male, in Congo non potrà che andar peggio.

Un gioiello per l’Eni
Il giacimento di M’boundi è il fiore all’occhiello delle acquisizioni Eni del 2007, con riserve pari a 1,4 miliardi di barili di petrolio equivalente (boe) di ottima qualità, la cui produzione dovrebbe raggiungere i 28mila barili al giorno nel 2010. Da qui già parte il gasdotto di circa 70 chilometri che servirà ad alimentare le turbine di una centrale termica da 350/400 Mw che Eni si è impegnata a costruire vicino al terminal di Ndjeno, a sud di Pointe Noire, con l’intento di ridurre il gas flaring e contribuire alla generazione di energia nel Paese. In realtà, sembra che la centrale servirà solamente a coprire i bisogni energetici di Eni stessa, e a garantire energia a costo minimo per l’estrazione delle sabbie bituminose, oltre che a rivenderla all’impresa canadese Mag Industry impegnata nell’estrazione del potassio nella regione. Anche la centrale, quindi, non porterà alcun beneficio agli abitanti di queste comunità, che come la maggior parte degli abitanti del Congo non hanno accesso all’energia elettrica: le poche linee esistenti nel Paese sono quasi tutte ad alta tensione. Anche a Pointe Noire, la capitale del petrolio, ironicamente manca spesso l’energia e quasi tutte le abitazioni e gli esercizi commerciali producono energia con generatori a diesel.

Poveri sopra un mare di petrolio
Il Congo è il terzo più grande esportatore di petrolio africano, dopo la Nigeria e l’Angola.
Un mare di petrolio che le grandi compagnie occidentali hanno iniziato a esplorare già alla fine degli anni 50, prima dell’indipendenza del Paese, e che fino ad oggi ha lasciato sul territorio gravi impatti ambientali ma scarsi benefici per le comunità locali e la popolazione congolese in generale.
L’economia del Paese è dominata dal settore petrolifero, cui corrisponde circa il 52% del prodotto interno lordo, più dell’85% delle esportazioni e circa il 70% delle entrate del governo. La francese Total e l’italiana Eni sono le due compagnie petrolifere con investimenti più importanti nel Paese. La Repubblica del Congo è uno dei Paesi più poveri e altamente indebitati dell’Africa, con un debito estero tra i 5 e i 6 miliardi di dollari. Secondo la Banca mondiale, almeno il 50% della popolazione vive sotto la soglia della povertà, ma le stime non ufficiali parlano di almeno il 70%.

Dubbi canadesi
L’estrazione delle sabbie bituminose in Canada sta generando una lunga lista di problemi ambientali, economici e sociali nel Paese, e molti interrogativi sulla sostenibilità economica delle operazioni. Informazioni raccolte sul sito creato dalla piattaforma canadese Polaris Institute (www.tarsandswatch.org). L’intero territorio coinvolto è stato sventrato per trivellare pozzi simili a quelli per l’estrazione convenzionale o per sollevare qualche decina di metri di terreno e procedere alla rimozione dello strato di sabbie contenenti bitume situate più in superficie. Oltre alla distruzione di diversi ettari di foresta, nel processo di estrazione vengono utilizzate quantità enormi di acqua ed energia, necessarie per separare e riportare in forma liquida il bitume. Gli alti standard ambientali canadesi non hanno impedito gli impatti incalcolabili delle operazioni su larga scala degli ultimi anni, che includono gravi implicazioni per le comunità indigene, in particolare la nazione dei Decho, oltre alla contaminazione di importanti quantità di acqua dolce: enormi laghi artificiali sono stati creati nella zona degli scavi per separare il bitume dalla sabbia con vapore ad alta temperatura e sostanze tossiche altamente cancerogene, da cui gli uccelli vengono mantenuti a distanza con cannoni ad aria per evitarne il letale contatto con le acque. Secondo l’ong inglese Platform, l’estrazione di un barile di petrolio dalle sabbie bituminose genera emissioni di CO2 dalle 3 alle 5 volte superiori all’estrazione di un barile di petrolio convenzionale.

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