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Il partito della Polizia

Il racconto di un gruppo di potere, che ruota intorno alla figura dell’attuale presidente di Finmeccanica Gianni De Gennaro, nell’inchiesta di Marco Preve, che ad Altreconomia spiega: "Molti poliziotti mi hanno scritto per confrontarsi sul libro, che è stato ben accolto da chi è impegnato a favore di una Polizia al servizio dei cittadini" —

Tratto da Altreconomia 162 — Luglio/Agosto 2014

"Molti poliziotti, molti che non conoscevo, mi hanno scritto per confrontarsi sul libro, che è stato ben accolto da chi è impegnato a favore di una Polizia al servizio dei cittadini. E sì, non posso che confermare il fatto che quotidiani importanti come la Repubblica o il Corriere della Sera o La Stampa non lo abbiano recensito sulle loro pagine nazionali”. Marco Preve è un giornalista -scrive sulle pagine genovesi della Repubblica- e il suo ultimo libro è un volume “scomodo”, “Il partito della Polizia” (vedi box): “Ho voluto raccontare, una serie di storie personali e di fatti che si sono verificati nell’ultimo trentennio: nella mia ricognizione parto addirittura dalle torture subite durante gli interrogatori dai brigatisti all’inizio degli anni 80. Volevo spiegare -evitando teorie complottiste, ma analizzando fatti- in quale modo e perché alcuni tra poliziotti e funzionari protagonisti o anche solo presenti in situazioni “limite” -come l’assalto alla scuola Diaz di Genova nel 2001- poi li ritroviamo in posizioni di vertice, all’interno dell’amministrazione della Polizia. Tutti protetti da uno scudo di garanzia totale. È un racconto a sostegno della mia tesi, ovvero che esiste un “partito” della Polizia.

Come lo descriveresti?
Si tratta di un gruppo di persone, un vertice che nell’ultimo ventennio ha ruotato attorno alla figura di Gianni De Gennaro, prefetto, capo della Polizia tra il 2000 e il 2007, già capo di gabinetto del ministero dell’Interno e Commissario straordinario per l’emergenza rifiuti in Campania, direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza fino al 2012 e poi sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri col governo Monti, e oggi presidente di Finmeccanica. De Gennaro ha guidato la Polizia, al cui interno si sono trovati personaggi al centro di episodi oscuri, a volte mai chiariti. Io ipotizzo che il loro silenzio, dalle torture al G8 di Genova fino al caso Shalabayeva del 2013 (la moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, fermata da alcuni agenti della questura di Roma, insieme alla figlia di 6 anni, mentre si trovava in una villa a Casalpalocco, e poi espulsa dall’Italia, ndr), abbia garantito loro carriera e protezione.
È un dato che ritroviamo anche quando, di fronte all’emersione di fatti e grandi incidenti professionali, le carriere progrediscono, anche fuori dalla Polizia. In situazioni che sconfinano nel penale ci sono stati anche casi di impunità. Questo sconta una situazione tutta italiana: anche in altri Paesi chi fa parte della Polizia ha coperture massime, ma se uno sbaglia salta. Da noi invece la copertura è totale. E vale per i vertici, ma anche per la “base”.
Molto difficilmente un gruppo di vertice riesce ad avere autorevolezza e autorità per reprimere abusi “di strada”, quando a sé stesso garantisce sicurezza. Non punire i vertici riverbera sui livelli più bassi. Vige una sorta di patto di mutuo riconoscimento: non punisco il capo, quindi i capi non puniscono il fenomeno degenerativo della violenza di base.
Ma questo deteriora la polizia, la sua natura democratica. Paradossalmente, non mi stupisce che qualcuno compia violenza durante un fermo. Tutto si gioca però nella capacità con cui l’amministrazione interviene per fermare gli abusi per fermarli. Sul caso Aldrovandi (vedi a pagina 32) ad esempio abbiamo assistito a negazioni quasi farsesche da parte della Questura di Ferrara.

Perché lo definisci “partito”?
Tutte le pubbliche amministrazioni dovrebbero mantenere una certa indipendenza dalla politica. Nella Polizia, invece, ho letto una riproduzione fedelissima del meccanismo dei partiti: si è creato un gruppo dirigente, vige una forte gerarchica -a Roma si decidono dai questori delle città fino ai dirigenti dei commissariati locali-. Un gruppo di fedelissimi che poi ha fatto alleanze con i partiti, quelli veri, mantenendo rapporti strettissimi con tutti i governi, dell’una e dell’altra parte.
Un gruppo formato da De Gennaro, dal suo successore Antonio Manganelli (morto nel 2013, ndr), e dai poliziotti presenti a Genova nel 2001. Quei super poliziotti che poi verranno condannati in via definitiva per la Diaz: Francesco Gratteri, Giovanni Luperi, Gilberto Caldarozzi. Tutti promossi nonostante le indagini.
Anche l’attuale capo della Polizia, Alessandro Pansa, nasce con quel gruppo, e fa la sua carriera con De Gennaro.

Da dove arriva questa attitudine?
Viviamo in un Paese nel quale i segreti hanno segnato le vicende politiche. Il potere della Polizia è un potere di conoscenza, di documentazione. L’altra faccia della medaglia è che c’è sempre stata la tendenza da parte della politica di avere dalla propria parte la Polizia, anche solo per un fatto mediatico. Tendenza che si traduce nel sostenere sempre e comunque. Ma aver partecipato all’antimafia non dà diritto ad adottare comportamenti illegittimi.
Alla politica si accompagna la capacità di relazionarsi anche con la carta stampata e la magistratura. I rapporti strettissimi tra la magistratura inquirente e Polizia, ad esempio, a volte li rende un corpo unico, con la magistratura che, anche solo per pigrizia, delega parte dei loro compiti alla Polizia.
Per la stampa vige lo stesso principio: ai giornalisti serve poter contare sulla Polizia.
Per questo certi eroi dell’antimafia non possono essere criticati, e hanno goduto di simpatia e benevolenza dalla stampa italiana. Una volta che sono accusati o condannati non scatta nei loro confronti l’analisi critica, bensì una vera e propria gara al sostegno, si evocano dubbi sull’impostazione dei processi.

Oltre al potere ci sono anche i soldi.
Il partito della Polizia mirava soprattutto a un estremo potere. Però è un dato di fatto che il denaro sia un tema molto forte, tra emolumenti e appalti. Il capo della Polizia italiana, fino alla cosiddetta spending review, percepiva un compenso triplo rispetto al capo dell’FBI  statunitense.
Esiste un resoconto di una commissione prefettizia sulla gestione degli appalti in tema di tecnologia per la sicurezza (il Piano operativo nazionale sicurezza, PON). Nel rapporto si dice che nell’arco di un decennio la Polizia ha gestito circa un miliardo, senza trasparenza ed economicità.
Poi certamente la Polizia soffre come tutti per la crisi, i mezzi e gli organici sono ridotti. A volte però abbiamo assistito a un utilizzo delle risorse incredibile: si dovrebbe lavorare su questo prima di protestare per l’assenza di soldi e auto nuove. —
 

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