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Altre Economie

Il pane del vicino

Una piccola comunità del Friuli-Venezia Giulia sperimenta la filiera del frumento, coltivato su cinque ettari gestiti collettivamente — pietro raitano

Tratto da Altreconomia 150 — Giugno 2013

Il campo è ancora verde; dove il colore ha un’intensità diversa, è perché a seminare c’erano i bambini. Sono i bambini di San Marco, una piccola comunità nel centro del Friuli, frazione di Mereto di Tomba, in provincia di Udine. “Siamo un piccolo centro di 426 abitanti”, spiega Massimo Moretuzzo, di Paîs di San Marc (paisdisanmarc.it) l’associazione locale che dal 2007 si occupa di rafforzare il tessuto di relazioni sociali all’interno della comunità e promuovere attività culturali sul territorio.
Li incontriamo alla “Fieste del Paîs di San Marc”, una manifestazione che si tiene ogni anno, a maggio. Dal 2012 la festa utilizza perlopiù prodotti locali, “seguendo la logica del chilometro zero”. Tutto il cibo di filiera corta, l’acqua rigorosamente di rubinetto. Per il pane, però, ci sono progetti anche più ambiziosi.
“Ci siamo riappropriati dell’antico diritto di proprietà collettiva su 5 ettari di terreno, e ci siamo ritrovati a decidere che farne. Abbiamo riflettuto su un modello di sviluppo agricolo e non solo, diverso, centrato sulla ricerca di un’economia sostenibile e solidale”. A San Marco hanno in mente la filiera del pane sperimentata, a Milano, da Spiga&Madia (vedi Ae 101) e quella toscana dei campi di Migliarino e Vecchiano (vedi Ae 128). “Sono storie che abbiamo letto proprio su Altreconomia, e ci siamo detti: perché non possiamo farlo anche noi?”. Lo scorso anno, dopo una serie di convegni e la collaborazione con la Facoltà di Agraria dell’Università di Udine, gli abitanti di San Marco iniziano a lavorare volontariamente i 15 “campi friulani” (ogni “campo” sono 3.500 metri quadri): “Tutti hanno dato una mano, mettendo a disposizione tempo e mezzi. Abbiamo utilizzato tecniche biologiche per il frumento -anche se non c’è in atto la conversione, per ora-, qui dove era coltivato mais in maniera intensiva. Anche i bambini hanno aiutato durante la semina, lo scorso ottobre. Ora attendiamo il raccolto, a luglio”. Il gruppo ha già contatti con un mulino a pietra, uno degli ultimi della zona, non distante (“L’antico mulino Zoratto, di Codroipo, attivo dal  ‘400”) e con un panificatore “convenzionale” di Mereto. “Poi, a differenza di altre esperienze, pensiamo di distribuire il pane non solo coi gruppi di acquisto, ma anche attraverso i piccoli negozi alimentari della zona, riconoscendo loro una funzione sociale, di presidio del territorio”. L’operazione prevede anche un logo, quello del “Pan di San Marc”, e la vendita diretta della farina, magari con l’aiuto di Coldiretti.
“La produzione dovrebbe arrivare a 60, 70 quintali di frumento, per 50 quintali di farina”. Nessuno ha intenzione di trarne profitto, se non pagare le spese. “Tutto verrà reinvestito nel progetto. Se va bene, abbiamo immaginato di recuperare un altro terreno, o altri campi incolti”.

La storia del pane di San Marco è intimamente legata a quei 15 “campi” di proprietà collettiva.
Una proprietà collettiva è un bene che storicamente appartiene alla comunità. Non è né pubblica, né privata. È un retaggio medioevale piuttosto diffuso in Italia: su Altreconomia abbiamo avuto modo di parlarne in più di un’occasione, e già da molti anni. Di solito si tratta di terreni che erano destinati al pascolo degli animali, al legnatico o al sostentamento dei soggetti più poveri di una collettività.
Nadia Carestiato è geografa, dottore di ricerca in Uomo e ambiente. Collabora con l’università di Udine ed è una grande esperta di proprietà collettive. “È difficile stabilire con precisione quando compaiano in Italia le prime proprietà collettive. Possiamo definirle come un patrimonio gestito dalla comunità locale sulla base di regole condivise. Al pari dei ‘beni comuni’, dai quali nessuno può essere escluso, le proprietà collettive sono inalienabili, indivisibili, inusucapibili, e la loro destinazione non può essere modificata, salvo rari casi. La gestione del patrimonio non ha finalità speculative, ma mira all’interesse collettivo, fornendo beni, servizi e occasioni di lavoro ai componenti della collettività locale”.
In Italia possono avere vari nomi: Regole, Partecipanze, Comunanze, Consorzi di Antichi originari o, come in Friuli, Vicinìe. La legge riconosce i diversi soggetti collettivi sia come soggetti pubblici (le “Amministrazioni separate di beni frazionali”), sia come soggetti di diritto privato (le “Comunioni familiari montane”).
“Quella di San Marco è una bella esperienza -prosegue la professoressa Carestiato-. Tutti in paese sapevano dell’esistenza delle terre, ma si era perso il valore sociale che portavano con sé. Quando l’associazione ha deciso di ritrovarlo, nel 2007, hanno cominciato una lunga procedura di verifica, che è durata la bellezza di 4 anni. Nel maggio 2012 infine è stato eletto il Comitato frazionale, che guida l’Amministrazione frazionale. L’organo di autogoverno si chiama Vicinìa perché ci si riuniva tra vicini richiamati dal suono della campana (‘Congregata la Vizinìa loco, et more solito premesso il suono della campana, et invito fatto casa per casa’)”.
Paola Fabello è presidente del Comitato. “Penso ai bambini che hanno contribuito a seminare, che scrivono nei loro temi a scuola ‘ogni giorno passo dal campo e aspetto il pane: sarà buonissimo’.
Abbiamo capito che oltre a  praticare un modo diverso di possedere, dovevamo anche produrre in modo diverso. Tutto questo sta nel nostro statuto, che abbiamo scritto in maniera partecipata, coinvolgendo la collettività, e che abbiamo approvato il primo marzo del 2013. Nell’articolo 1 si legge ad esempio che fanno parte della Comunità tutti i residenti, senza distinzione di sesso, lingua, razza, religione, condizione. Oppure, all’articolo 2: ‘La proprietà delle terre civiche appartiene alle generazioni future, in un’ottica di equità intergenerazionale e di rinnovabilità delle risorse’. O ancora, articolo 3: ‘Le decisioni devono essere assunte per quanto possibile con il metodo del consenso’”. Nello statuto c’è anche il seme della filiera del pane, all’articolo 11: “I terreni della Comunità non possono essere oggetto di sfruttamento urbanistico o di altri usi che non siano quelli vincolati alla produzione agro-silvo-pastorale o ad attività ad essa correlate (didattiche o ricreative), in una prospettiva di attuazione del principio di sovranità alimentare delle Comunità locali.
Le coltivazioni o produzioni realizzate dovranno basarsi sui principi della tutela dell’ambiente, della sostenibilità nell’utilizzo delle risorse, delle tecniche di agricoltura biologica o affini.
Sono vietate coltivazioni o produzioni basate su prodotti dannosi per l’ambiente e per la salute umana e animale”.
“Con l’elezione del comitato -spiega ancora Massimo Moretuzzo- siamo diventati pienamente titolari degli ettari, che storicamente erano dati in gestione alla parrocchia, e abbiamo sciolto i contratti in essere con alcuni contadini. È stato un percorso articolato, fatto di scoperte e ri-scoperte continue, di confronto con la normativa vigente sugli usi civici e di scontro con l’apparato burocratico del Paese, di relazioni con altre proprietà collettive e di scambio con molte realtà attive nel mondo dell’economia solidale, di incontri e dibattiti partecipati e appassionati. Molti di noi si erano impegnati da tempo sui beni comuni -in particolare sul tema dell’acqua-: questo progetto si inserisce in quel percorso”. Nella vicenda c’è anche lo zampino di Maurizio Gritta, presidente della cooperativa agricola Iris (irisbio.com) in provincia di Cremona (socia di Ae). “Maurizio ci ha raccontato la loro storia, quella di un gruppo di giovani che nel 1978 crede nella cooperazione, nell’agricoltura biologica: una scommessa sulla terra come bene comune”.
“In effetti -spiega Nadia Carestiato- oggi non si possono più costituire nuove ‘proprietà collettive’. Qualcosa che assomiglia molto sono le fondazioni, come appunto la Fondazione Iris (vedi Ae 149)”.
“In Friuli-Venezia Giulia le Vicinìe come quella di San Marco e le ‘Comunelle’ riguardano circa 75mila ettari -spiega Luca Nazzi, presidente del Coordinamento regionale delle proprietà collettive del Friuli-Venezia Giulia, e membro della Consulta nazionale (consultanazionale.blogspot.it)-, specie nella Valcanale e nel Triestino, mentre assume importanza l’uso civico della laguna di Grado, raro esempio di proprietà collettiva su di una laguna. È quasi impossibile oggi stimare con certezza l’entità del fenomeno a livello nazionale”.
Secondo la Consulta nazionale, una ricerca del ministero dell’agricoltura del 1957 stimava le proprietà collettive per più di due milioni di ettari. L’ente oggi ha fatto una prima ricognizione degli enti e rintracciato almeno 1.567 gestori di beni collettivi, senza contare gran parte delle regioni meridionali, dove i beni sono per lo più confusi con il patrimonio dei Comuni. Di recente, l’Istat ha ricompreso nel 6° censimento dell’agricoltura anche questi beni: i dati indicano 1.407 enti e oltre 1,1 milione di ettari si superficie (il 4,4% del totale). Probabilmente è un’ampia sottostima.
La regione dove il fenomeno è più diffuso è senz’altro il Trentino Alto Adige, che conta 956 enti di gestione, per lo più masi chiusi. In Italia centrale svetta l’Umbria, mentre una situazione particolare è quella sarda, dove a fronte di oltre 161mila ettari sussistono pochi gestori.
“Secondo il Centro studi e documentazione sui demani civici e le proprietà collettive (usicivici.unitn.it) gli ettari dovrebbero essere più di 2 milioni. Se guardiamo ancora al Friuli, possiamo aggiungere che i Comuni interessati sono 55, dove risiede il 34% della popolazione regionale” conclude Nazzi.
“Nonostante questa varietà -aggiunge Nadia Carestiato- esistono pochi casi come quello di San Marco, col suo progetto di filiera del pane. Le proprietà collettive sono diffuse in tutto il mondo: hanno caratteristiche comuni a quelle italiane, ma ciascuna è un caso singolare e particolare. Cambiano le regole d’uso del bene, ma le finalità sono le medesime. A livello internazionale, una grande studiosa del fenomeno è stata Elinor Ostrom, premio Nobel per l’economia nel 2009. In Italia abbiamo il professor Paolo Grossi, giudice costituzionale, già  docente di Storia del diritto italiano presso l’Università degli Studi di Siena e docente di Storia del diritto italiano medievale e moderno presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Firenze. Grossi ha scritto: “Se noi non cominciamo ad ammettere l’elementare verità che non esiste soltanto una cultura ufficiale e che non esiste, a livello di utilizzazione e gestione dei beni, soltanto il modello della proprietà individuale di indistruttibile stampo romanistico, ma che possono ben coesistere altre culture giuridiche portatrici di modi alternativi nella concezione dell’appartenenza, ci precludiamo ogni possibilità di capire il problema delle proprietà collettive”.
A San Marco questo lo hanno capito anche i bambini. —
 

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