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Esteri / Varie

Il palazzo del veto

Le decisioni più importanti dell’ONU sono ostaggio di cinque Paesi, che dal 1945 possono bocciare le delibere del Consiglio di sicurezza e bloccare ogni riforma. Alcuni gruppi di interesse si “combattono” per riformare il Consiglio di sicurezza. Le due principali correnti sono il gruppo “Uniting for Consensus” (UfC) e il G4

Tratto da Altreconomia 174 — Settembre 2015

Per l’Onu il massacro di 8.000 persone avvenuto a Srebrenica, in Bosnia, nel luglio del 1995, non è un genocidio, e la Palestina deve restare occupata. Le decisioni non le ha prese la maggioranza dei 193 Stati membri che compongono le Nazioni Unite, ma il Consiglio di Sicurezza, un organismo fermo a 70 anni fa: le cinque potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale -Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti- detengono un diritto di veto, e possono bocciare ogni provvedimento. Negli ultimi 20 anni sono state presentate molteplici proposte per riformare il Consiglio, ma l’Onu funziona con meccanismi decisionali e composizione (“membership”) risalenti alla sua fondazione, il 26 giugno 1945, e gli interessi geopolitici delle grandi potenze ne condizionano l’operato.
Nel Consiglio di sicurezza, che è il massimo ambito politico-decisionale delle Nazioni Unite, siedono anche 10 membri non-permanenti, eletti a rotazione per un mandato di due anni, ma non hanno il diritto di veto. Tutte le decisioni del Consiglio richiedono una maggioranza di almeno nove voti. Con l’eccezione delle votazioni relative alle questioni procedurali, nessuna decisione può essere presa nel caso in cui un voto negativo, o veto, venga espresso da un membro permanente. Il Consiglio viene convocato, in media una volta al mese, quando un Paese sottopone una questione che minacci la pace internazionale. L’Onu avvia, con tempi che possono corrispondere a poche settimane, mediazioni volte a risolvere pacificamente la controversia. Nel caso di combattimenti armati il Consiglio cerca invece di ottenere un cessate-il-fuoco. Le Nazioni Unite possono inviare delle missioni per il mantenimento della pace per far rispettare la tregua e tenere separate le fazioni avverse. Il Consiglio di Sicurezza può imporre sanzioni economiche e predisporre un embargo sugli armamenti. In rare occasioni (tra gli ultimi, Libia 2011) il Consiglio di sicurezza ha autorizzato -in virtù del Capitolo VII sul “legittimo uso della forza”- gli Stati membri a impiegare “tutti i mezzi necessari”, comprese azioni militari collettive, per garantire che le sue decisioni venissero rispettate al fine della pace.
Il potere di veto ha spesso sollevato contraddizioni sull’azione dell’Onu, come evidenziato da Daniele Archibugi, economista del CNR, secondo il quale “ha causato una deviazione degli obiettivi di pace e sicurezza internazionali perseguiti nello Statuto delle Nazioni Unite, ma ha generato anche una frattura fra il ruolo che avrebbe dovuto assolvere l’Onu nella politica mondiale e quello politico dei 5 membri permanenti come garanti della pace”. A partire dagli anni Sessanta del XX secolo, dopo l’ingresso all’Onu degli Stati nati dal processo di decolonizzazione, si è registrato un aumento dei “veti” occidentali. Dagli anni Settanta il potere di veto è stato esercitato quasi esclusivamente dagli Stati Uniti, soprattutto in relazione a proposte di condanna di Israele per i comportamenti nei Territori arabi occupati e degli interventi statunitensi in America centrale. Il Regno Unito e gli Stati Uniti inoltre, hanno più volte usato il veto per evitare l’approvazione di sazioni contro il Sudafrica.
Alcuni gruppi di interesse si “combattono” per riformare il Consiglio di sicurezza. Le due principali correnti sono il gruppo “Uniting for Consensus” (UfC) e il G4. Uniting for Consensus -creato negli anni Novanta sotto leadership italiana dell’ambasciatore Francesco Paolo Fulci, e che oggi include Italia, Pakistan, Colombia, Argentina, Canada, Malta, Messico, Egitto, Sud Corea, San Marino, Costa Rica, Spagna, Olanda e Turchia- propone un allargamento del Consiglio di sicurezza a 25 membri, con 20 membri non-permanenti, con mandato biennale o superiore, senza diritto di veto, e scelti su base regionale (6 all’Africa, 4 all’America Latina e i Caraibi, 3 all’Europa occidentale, 2 all’Europa orientale). L’iniziativa del Ufc accoglie le esigenze degli Stati africani, sottorappresentati all’Onu. La strategia prevede anche una limitazione dell’uso del veto, in vista di una sua abolizione. Il G4, composto da Germania, Giappone, Brasile e India, insiste sull’ampliamento (fino a 11) del numero dei seggi permanenti del Consiglio di sicurezza, e prevede 4 nuovi membri non-permanenti. I primi non avrebbero diritto di veto. Secondo Uniting for consensus, la proposta del G4 relegherebbe gli altri Stati dell’Onu alla condizione di membri di Serie B.

Per Sebastiano Cardi, ambasciatore italiano permanente alle Nazioni Unite, “la proposta del Uniting for Consensus consente a tutti gli Stati membri di occupare periodicamente un seggio”. Per questo il gruppo è contrario a un incremento dei seggi permanenti, in quanto perpetuerebbe un trend in base al quale un terzo dei Paesi membri dell’Onu non ha mai avuto un posto nel Consiglio, che resterebbe elitario.
“Le ragioni del fallimento di qualsiasi ipotesi di riforma del Consiglio di sicurezza sono legate alla natura stessa delle Nazioni Unite: queste ultime non sono né un governo mondiale (world government), né un ente sovranazionale, ma un foro di concertazione inter-governativa che per funzionare ha bisogno del consenso dei Paesi membri”, spiega Daniele Santoro, docente di Filosofia politica dell’Università Luiss-”Guido Carli” di Roma. “Per riformare il Consiglio di sicurezza bisogna operare su due fronti: ampliare la rappresentanza degli Stati della comunità mondiale e migliorare i processi decisionali, oggi frenati e condizionati dal diritto di veto. Il rischio è tuttavia che un’abolizione del veto porti a una paralisi dell’Onu”.

“Sebbene si basi sulla premessa di una politica europea forte, che oggi non c’è, la riforma proposta dal gruppo Uniting for consensus, che prevede una limitazione del veto, è concreta e benvenuta”, conclude Santoro, che rileva come a monte della battaglia ci siano concezioni opposte di democrazia. Da una parte quella dei “teorici cosmopoliti” che, come Daniele Archibugi, sostengono la formazione di una sorta di Assemblea parlamentare mondiale, dall’altra i loro oppositori, secondo i quali un governo mondiale rappresenta una minaccia per la democrazia, con il rischio che, a quel punto, gli Stati agiscano come agenti politici ed escludano i cittadini. —

La pace frenata

8 luglio 2015 – La Russia mette il veto alla bozza di risoluzione che avrebbe condannato come “genocidio” il massacro compiuto nel luglio del 1995 a Srebrenica, in Bosnia, dalle forze serbo-bosniache del generale Ratko Mladic.

27 marzo 2015 – Il Consiglio di sicurezza approva le risoluzioni n. 2213 e 2214 in cui viene sollecitato il cessate-il-fuoco in Libia, ma senza rimuovere l’embargo di armi, puntando sull’azione diplomatica dell’inviato Onu Bernardino Leon affinché sia costituito un governo di unità nazionale libico. Resta controversa la risoluzione Onu n. 1973 approvata il 17 marzo 2011, su proposta di Francia, Stati Uniti, Regno Unito e Libano, alla quale seguì l’intervento armato della Nato nel Paese. Pur potendo porre il veto, Russia e Cina non esercitarono questo potere.

30 dicembre 2014 – Il Consiglio di sicurezza boccia il documento palestinese che chiedeva la fine dell’occupazione israeliana in Cisgiordania entro tre anni. Due i voti contrari (Stati Uniti e Australia), cinque le astensioni. Tre membri permanenti -Cina, Russia e Francia- hanno votato a favore, con la Gran Bretagna astenuta.La risoluzione ha ottenuto  8 “sì”, sui 9 necessari per l’adozione.

14 luglio 2014 – Il Consiglio di sicurezza approva la quinta risoluzione sulla Siria (n. 2165), volta a garantire protezione e assistenza ai civili. A marzo è stato diffuso il report “Fallimento Siria”: 21 agenzie umanitarie denunciano l’inapplicazione delle risoluzioni dell’Onu “da parte delle potenze mondiali”. 

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