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Il “muro climatico”: se i Paesi causa della crisi spendono di più sulle frontiere

© Greg Bulla, Unsplash

Dagli Usa all’Australia il budget per fermare e respingere i migranti alle loro frontiere supera ampiamente gli stanziamenti per la mitigazione degli impatti dei cambiamenti climatici nei Paesi più poveri. La denuncia del Transnational Institute

Tra il 2013 e il 2018 i sette Paesi storicamente responsabili di quasi la metà delle emissioni di CO2 hanno speso circa 33,1 miliardi di dollari per implementare politiche di respingimento alle frontiere, più del doppio di quanto investito per sostenere la transizione ecologica nei Paesi più fragili (14,1 miliardi di dollari). A dimostrazione che a fronte di una crisi climatica che colpisce in maniera particolarmente violenta i Paesi più fragili, quelli più ricchi -ovvero i principali responsabili dell’accumulo di gas effetto serra in atmosfera- hanno risposto costruendo muri per fermare le persone costrette a emigrare anche a causa dell’impatto dei cambiamenti climatici sulle loro vite e territori.

I “mattoni” che costruiscono il “Global climate wall”, scrive il Transnational Institute (Tni) nell’omonimo report, sono formati da due dinamiche distinte ma collegate tra loro: da un lato la militarizzazione dei confini con investimenti sempre crescenti di cui beneficiano le industrie del comparto della sicurezza; dall’altro il mancato sostegno economico e finanziario ai Paesi più esposti alle conseguenze del cambiamento climatico per supportali nelle politiche di mitigazione e adattamento. Nel corso della Conferenza delle parti sul clima delle Nazioni Unite (Cop) del 2009, infatti, i Paesi più ricchi si erano impegnati a stanziare 100 miliardi di dollari l’anno. Un impegno ribadito durante la Cop di Parigi del 2015 ed “esteso” fino al 2025 ma che -sottolinea Tni- è rimasto largamente sulla carta. “Le ultime stime elaborate dall’Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo mostrano che i suoi Paesi membri hanno versato solo 80 miliardi di dollari nel 2019 e negli impegni per il 2020 hanno aggiunto solo 1,6 miliardi”, si evidenzia nel rapporto.

L’analisi del Transnational institute si concentra sui sette Paesi che dal 1850 a oggi hanno emesso complessivamente il 48% dell’anidride carbonica accumulata in atmosfera. Gli Stati Uniti, che pesano per il 30% sul totale delle emissioni “storiche”, hanno speso 19,6 miliardi di dollari tra il 2013 e il 2018 per la gestione della frontiera con il Messico e dei centri per migranti, oltre alle politiche di rimpatrio. Per contro, Tni stima in appena 1,8 miliardi di dollari la cifra spesa per il clima. In altre parole: per ogni dollaro impegnato nel sostegno ai Paesi più poveri nelle politiche di adattamento climatico, gli Usa ne hanno spesi 11 per respingere alla loro frontiera donne e uomini provenienti da Stati dell’America Latina o dalle isole dei Caraibi (come Haiti) colpiti da esondazioni, siccità e mutamenti del clima che rendono sempre più difficili le condizioni di vita per le popolazioni locali.

Nello stesso arco di tempo il Canada ha speso 15 dollari per la gestione delle frontiere per ogni dollaro investito per il clima (1,5 miliardi di dollari contro 100 milioni). Mentre l’Australia ha speso 2,7 miliardi di dollari per le sue politiche di respingimento e appena 200 milioni per il clima. Il Regno Unito ha speso 1,4 miliardi per il clima e quasi il doppio (2,7 miliardi di dollari) per le frontiere. Inoltre, sottolinea Tni, gli investimenti per la gestione delle politiche migratorie sono cresciuti del 29% tra il 2013 e il 2018. “Questa militarizzazione delle frontiere è in parte radicata nelle strategie nazionali di sicurezza climatica che, dai primi anni Duemila, hanno inquadrato i migranti come ‘minacce’ piuttosto che come vittime di ingiustizia”, scrivono ancora i curatori, evidenziando anche il ruolo dell’Unione europea dove il budget dell’agenzia Frontex è aumentato del 2.763% tra il 2006 e il 2021.

A beneficiare della situazione sono le industrie del comparto della sicurezza e che operano lungo i confini dei singoli Paesi, le quali si aspettano di trarre ulteriori profitti grazie all’instabilità causata dai cambiamenti climatici. Un’analisi elaborata nel 2019 dal portale “Research and market” aveva stimato un aumento del budget dei settori della Sicurezza interna e della Sicurezza pubblica dai 431 miliardi del 2018 ai 606 miliardi del 2024. “Secondo il report, uno dei fattori trainanti della crescita sarebbe l’aumento dei disastri naturali legati al cambiamento climatico”, sottolinea Tni.

Persino le aziende che operano nel settore fanno riferimento ai possibili impatti dei cambiamenti climatici sulle loro attività: usandoli a proprio vantaggio. Raytheon -compagnia a stelle e strisce- afferma che “la domanda di prodotti e servizi militari può aumentare a seguito di siccità, inondazioni […] che si verificano a causa del cambiamento climatico”. Anche la società britannica Cobham, specializzata nella commercializzazione di sistemi di sorveglianza e tra i principali appaltatori del governo australiano, sostiene che i cambiamenti climatici, la riduzione delle risorse e le difficili condizioni ambientali “potrebbero aumentare le necessità di sorvegliare i confini a causa delle migrazioni”.

La scelta da parte dei governi di dare priorità agli investimenti per il rafforzamento dei confini e per le politiche di respingimento dei migranti rispetto a quelli per il clima “minaccia di peggiorare la crisi climatica per tutta l’umanità -conclude Tni-. Senza investimenti sufficienti per aiutare i Paesi a mitigare le conseguenze e ad adattarsi alle mutate condizioni ambientali la crisi causerà ulteriori devastazioni e sradicherà sempre più persone. Ma la spesa pubblica è una scelta politica, il che significa che sono possibili diverse scelte. Investire nella mitigazione del clima nei Paesi più poveri e vulnerabili può sostenere una transizione verso l’energia pulita. E tagli profondi delle emissioni da parte delle nazioni più inquinanti possono dare al mondo la possibilità di limitare l’aumento della temperatura al di sotto di 1,5 gradi rispetto all’epoca pre-industriale”.

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