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Il miraggio chiamato Carbon Capture

Cinque anni fa Enel lanciava l’epopea della tecnologia che prevedeva la cattura e lo stoccaggio della CO2. Una scommessa che avrebbe permesso di continuare a produrre energia da fonti fossili senza porsi il problema dell’atmosfera, persa dopo aver investito 34 milioni di euro, fondi pubblici dell’Unione europea

“Il futuro del carbone non è nero, ma radioso e pulito”. Queste parole campeggiavano nell’estate del 2010 sul sito di Enel, e lanciavano l’epopea del Carbon Capture & Storage (CCS): grazie a una tecnologia -la cattura e lo stoccaggio della CO2, appunto- sarebbe stato possibile continuare a produrre energia da fonti fossili senza porsi il problema dell’atmosfera. Cinque anni dopo, e avendo speso oltre 34 milioni di euro di fondi pubblici dell’Unione europea per sperimentare il CCS, l’azienda energetica italiana ha rinunciato. L’impianto pilota di Brindisi c’è ancora, mentre la centrale termoelettrica a carbone di Porto Tolle, nel Parco del Delta del Po, che avrebbe dovuto ospitare l’impianto non si farà.

La rinuncia di Enel è legata anche ai tempi di applicazione della tecnologia. Secondo un’analisi del professor Dario Zampieri, professor di Geologia dell’Università di Padova, “si stima che siano necessari 20-30 anni per la messa a punto del processo di cattura, di più per quello dello stoccaggio” (l’articolo “CSS, mito e realtà" è sul sito aspoitalia.it).
Intanto, uno studio pubblicato dalla rivista Nature nel 2015 sottolinea come il CSS non serva granchè a contenere il riscaldamento globale entro la soglia critica dei 2°C di aumento medio di temperatura entro il 2050. In assenza di questa tecnologia dovremmo “risparmiare” il 35% del petrolio, il 52% del gas e l’88% del carbone. Se la pratica del CCS fosse disponibile dal 2025 le percentuali cambierebbero di poco: il 33% del petrolio, il 49% del gas e l’82% del carbone.

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