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Il mestiere della banca – Ae 95

Gli istituti di credito si comportano sempre più da supermercati, dove non si risolvono i problemi dei clienti ma si vendono prodotti. E le decisioni sono prese a centinaia di chilometri di distanza, senza legami col territorio C’era una volta…

Tratto da Altreconomia 95 — Giugno 2008

Gli istituti di credito si comportano sempre più da supermercati, dove non si risolvono i problemi dei clienti ma si vendono prodotti. E le decisioni sono prese a centinaia di chilometri di distanza, senza legami col territorio


C’era una volta il signor Direttore. Seduto su una grande poltrona, con un bel quadro alle spalle e magari una pianta di ficus che ombreggiava la scrivania. Era lui che decideva il destino di piccoli imprenditori in difficoltà, commercianti, bottegai. Conosceva bene l’ambiente che gli girava intorno, aveva un certo fiuto per gli affari e anche quel briciolo di coraggio per le scelte che è nel dna del banchiere. Poi qualcosa è cambiato, nelle banche come in molti altri mercati: anche il credito, da prodotto artigianale, si è pian piano trasformato in merce da banco. E il Direttore non è più quello di una volta.

La maggior parte dei prestiti e dei fidi a piccole imprese e famiglie oggi sono prodotti standardizzati, dove la mano e l’occhio dei dipendenti di una filiale contano sempre meno. Le condizioni sono invece sempre più dettate da rigide regole centralizzate, negli uffici centrali dell’istituto di credito. Il risultato è, ad esempio che circa il 90 per cento delle maggiori banche, per i prestiti alle piccole imprese, considera indispensabile o quasi l’utilizzo di programmi di credit scoring, una specie di macchinetta che, messi dentro i dati patrimoniali e di bilancio, sputa fuori il verdetto in tempo reale (il dato è di una recente indagine della Banca d’Italia). È questa macchinetta che decide se avete diritto a un mutuo, o a un altro tipo di prestito, e a che condizioni. L’utilizzo di questi strumenti scende al calare della dimensione della banca, fino ad arrivare al di sotto del 25 per cento per le banche di credito cooperativo.

Molto utilizzate sono anche le informazioni della Centrale dei rischi (vedi riquadro nella pagina accanto). Dal giudizio della Centrale dipende l’esito delle vostra richiesta alla banca. Tuttavia, in filiale le informazioni sono spesso assunte in maniera automatica e acritica, senza possibilità di differenziare tra un bancarottiere e un poveretto che per un disguido si è trovato un paio di volte con qualche giorno di ritardo sulla rata del mutuo.

Sono tutti strumenti che lavorano su dati oggettivi, standardizzati, che lasciano poche possibilità a quelle imprese “opache” ma dotate di un elevato potenziale o di manager particolarmente dotati, che sono proprio quelle realtà che hanno reso necessaria la nascita degli istituti di credito secoli fa.

Se si cercano la cause di questa involuzione, uno degli elementi principali da segnalare è il progressivo allontanamento tra il luogo dove vengono prese le decisioni -la sede della banca- e quello dove andranno i soldi, ovvero le imprese e le famiglie. Nell’ultimo anno, a causa del processo di agglomerazione del sistema bancario (si veda il box accanto) i rapporti banca-impresa connotati dalla distanza massima (quando cioè l’impresa ha sede nel Mezzogiorno e la banca nel Centro-Nord) sono arrivati ad essere quasi la metà. Nel Mezzogiorno superano l’80 per cento. Questa distanza tende a distruggere quei rapporti di clientela cosiddetti di soft information, basati sulla conoscenza diretta che, quando utilizzati in modo corretto, costituiscono il cuore della banca.



Ma quella illustrata fin qui è solo la prima parte della storia. Il processo di fuga delle banche dal loro core business -la valutazione dei rischi- si sposa con una tendenza preoccupante alla trasformazione degli sportelli in prestigiose vetrine per la vendita di prodotti finanziari. Merce confezionata all’interno del gruppo o da esperti d’oltre oceano, con profili di incertezza e di rendimento per tutti i palati, che le filiali devono piazzare, senza alcun rischio e con una bella commissione. Sarebbe questa la ragione del continuo proliferare di nuovi sportelli, nonostante il livello di quasi saturazione raggiunto sul territorio, con oltre 33mila filiali in Italia e un aumento di quasi il 40 per cento in dieci anni.

Secondo i dati della Banca d’Italia, nell’ultimo anno le commissioni praticate sui servizi, legati soprattutto all’attività di investimento, ha superato gli introiti dell’attività di intermediazione tradizionale, la cui incidenza sui ricavi totali è passata in 15 anni da 75 al 48 per cento.

Ecco perché in questo contesto la figura altera del signor Direttore tende a scomparire, troppo eclettica e costosa. Lo sostituiscono impiegati intermedi, con stipendi intermedi, scarsi poteri e la stessa autonomia decisionale di una cassiera del supermercato. Nemmeno la grande stanza esiste più, e il posto per il titolare della filiale viene ricavato alla meglio in una rientranza del piano terreno.

Per quanto possa sembrare impossibile, in alcune delle tante filiali sparse per l’Italia è molto difficile trovare persino i contanti: se la richiesta supera le poche migliaia di euro vanno ordinati per tempo.



Sorprendentemente resistono, nel panorama nazionale, oltre 400 banche di credito cooperativo che non solo sono sfuggite al processo di concentrazione, ma hanno incrementato parecchio la propria quota di mercato prendendo di fatto il posto delle banche maggiori nel finanziamento della clientela più rischiosa, e più esposta al rischio di razionamento del credito. Negli ultimi 10 anni, per quanto riguarda il finanziamento delle piccole imprese, l’andamento delle banche minori ha sopravanzato quello delle più grandi di circa 4 punti percentuali nella media annua, arrivando a 10 punti nel triennio 2001-2004.

Per alcuni osservatori questi nani della finanza non avrebbero nessuna ragione di esistere, visti i vantaggi dei grandi gruppi in termini di economie di scala e diversificazioni dei rischi. Eppure queste banche ancora artigianali, dove i clienti sono conosciuti per nome, sono valutati sulla credibilità e le idee e non solo sui pezzi di carta, piacciono alla gente, anche se magari fanno pagare mezzo punto percentuale in più di interesse. E svolgono un lavoro molto importante in questo momento, assicurando il finanziamento di quella fetta di clientela che, perché piccola e “opaca”, difficilmente riuscirebbe a trovare credito altrove.



L’azionista è il riferimento

Per capire le ragioni profonde del cambiamento avvenuto nella mission delle banche italiane è necessario tornare verso la metà degli anni Novanta, subito dopo il varo del Testo unico bancario del 1993. In questi anni l’industria del credito subisce una vera metamorfosi nella struttura e nei contenuti, dovuta alla nuova concezione imprenditoriale del credito portata dalla legge, alla crescente competizione, alla necessità di remunerare gli azionisti.

Il sistema bancario d’un tratto comincia a correre. La parola d’ordine è ristrutturare, risparmiare, standardizzare. Questo da un lato porta a ridurre le enormi sacche di inefficienza del sistema, fino ad allora semi-pubblico, che risultava praticamente ingessato e con alti livelli di sofferenze; dall’altro innesca un processo che, nel giro di qualche anno, porterà ad un preoccupante fenomeno di “disintermediazione”, ovvero di allontanamento tra banca e cliente.

Ad acuire questa distanza ha contribuito la spirale di fusioni e acquisizioni che, a cavallo del secolo, ha portato alla scomparsa o all’inclusione in gruppi di oltre il 50 per cento delle banche esistenti. Sulle ceneri di molti piccoli istituti sono sorti dei veri giganti del credito -nel 2006 i primi sei gruppi controllavano più della metà del totale attivo italiano- molto più vicini alla grande finanza che al piccolo bottegaio.  



Chi giudica il cliente


La Centrale dei rischi consiste in un archivio, gestito dalla Banca d’Italia, dove vengono segnalate dalle banche tutte le posizioni di rischio dei clienti con depositi superiori a 75.000 euro, e le sofferenze senza limite di importo. L’archivio è consultabile da tutte le banche, per cui, al momento di concedere un credito, può essere valutata la storia di ogni debitore e quindi le probabilità di restituzione del prestito. Esistono anche altre centrali di allarme, tra cui la Crif, gestita da una società privata, che registra anche segnali meno “forti”, come ad esempio i ritardi nei pagamenti. Dal punto di vista economico, queste centrali svolgono un importante ruolo di prevenzione contro il pericolo di affidamenti a soggetti recidivi. D’altra parte, una politica del credito eccessivamente basata su informazioni di questo tipo può portare a una deresponsabilizzazione di chi deve decidere la concessione del credito, e a sanzioni sproporzionate per persone colpevoli a volte solo di disattenzioni.

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