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Diritti / Attualità

Il mestiere del salvare nel racconto di Riccardo Gatti. Per far scaturire coscienza e libertà

Esce in libreria “Conversazioni in alto mare” (Elèuthera editrice) di Riccardo Gatti e Marco Aime. Un prezioso racconto in diretta che aiuta a capire come mai nel giro di poco tempo quelli che erano chiamati “angeli del mare” sono diventati “trafficanti di esseri umani”. Pubblichiamo un estratto della postfazione a cura del direttore di Ae, Duccio Facchini

La “strategia” dei respingimenti delegati verso la Libia nel Mediterraneo centrale, voluta e applicata in questi anni dai governi dei Paesi dell’Unione europea, con l’Italia in prima fila, poggia le proprie basi su quella che il compianto Luca Rastello avrebbe definito una “guerra civile contro il vocabolario”.

Lo hanno mostrato bene in questo libro Riccardo Gatti e Marco Aime. Per azzerare la ricerca e il soccorso in mare si è partiti dalle parole: fattori di attrazione, taxi del mare, amici dei trafficanti, vice-scafisti, nastro trasportatore ecc. Occorreva un clima feroce per giustificare politiche feroci. E l’input è arrivato dalle istituzioni europee (Frontex, Commissione europea, Consiglio europeo); i populisti han dovuto solo cavalcare l’onda, imbarbarendola nei toni.

Quella guerra civile prosegue ancora oggi e purtroppo riguarda da vicino la Guardia costiera italiana, attore chiave della “strategia”. Prendiamo per esempio il comunicato stampa del Comando generale del Corpo delle Capitanerie di Porto datato 3 luglio 2021 e intitolato Guardia costiera: fermo amministrativo per nave “Geo Barents”. In pochi vi si sono soffermati. 

Un passo indietro: dal maggio 2021 la nave “Geo Barents”, battente bandiera norvegese, è nelle acque del Mediterraneo centrale allo scopo di salvare vite umane. L’ha noleggiata Medici senza frontiere, già impegnata in questa attività dal 2015, che è tornata a denunciare il “desolante vuoto di capacità di soccorso” dopo la dismissione dell’operazione “Mare Nostrum”. L’imbarcazione, un tempo utilizzata per analisi geologiche, è lunga 76,95 metri, ha due ponti per accogliere le persone soccorse, uno per gli uomini, l’altro per donne e bambini. Ospita una clinica, una stanza ostetrica e una per le visite, dove le équipe di MSF svolgono le attività di assistenza medica. È dotata di due gommoni veloci (rhibs) che vengono utilizzati durante le operazioni di soccorso e a bordo ci sono 20 operatori di MSF e 12 persone per l’equipaggio marittimo. Organizzazione e assetto non sono improvvisati.

Tra fine giugno e inizio luglio la “Geo Barents” salva 410 persone dall’annegamento, le carica a bordo e attracca nel porto di Augusta, concludendo così il soccorso (altrimenti non lo è). Terminato lo sbarco, alcuni ispettori della Guardia costiera salgono a bordo per una “ispezione volta a verificare l’adeguatezza della stessa rispetto alle vigenti norme in materia di sicurezza della navigazione, composizione e certificazione dell’equipaggio, tutela ambientale e condizioni di vita e di lavoro a bordo” (cito dal comunicato stampa).

L’esito è problematico. La Guardia costiera sostiene che: “L’ispezione ha evidenziato diverse irregolarità di natura tecnica , tali da compromettere non solo la sicurezza degli equipaggi, ma anche delle stesse persone che sono state e che potrebbero, in futuro, essere recuperate a bordo, nel corso del servizio di assistenza svolto”. Il rispetto di un preciso obbligo disciplinato dal diritto internazionale è un “servizio di assistenza”? La Guardia costiera insiste: la “Geo Barents” ad Augusta avrebbe fatto “sbarcare 410 migranti”, non persone, non naufraghi, “migranti”.

Il capovolgimento è continuo, fino ad arrivare al punto più alto (o più basso): “Considerata l’attività di ricerca e soccorso che la nave svolge sistematicamente [sic!], l’ispezione ha fatto emergere che i mezzi di salvataggio presenti a bordo (zattere, cinture di salvataggio), certificati dallo Stato di bandiera, sono sufficienti per un numero massimo di 83 persone a fronte delle 410 sbarcate nel porto di Augusta”. Per passare l’esame MSF avrebbe dovuto lasciare in acqua 327 persone? 

Chi costringe a porsi oggi questa “domanda” -come se fossero fantasia i 12.600 morti accertati nel Mediterraneo centrale tra il 2014 e l’agosto 2021 dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni- è la stessa istituzione che tra il 1991 e il 2017 ha coordinato attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo che hanno comportato il salvataggio di oltre 934 mila persone. Con il 66% delle attività di Search and Rescue (Sar) concentrato peraltro nel periodo 2014-2017: oltre 620 mila tra donne, uomini, minori, bambini.

Fino al 2018 la Guardia costiera dava conto mensilmente del numero di operazioni di “ricerca e soccorso” coordinate dal Centro di soccorso marittimo (IMRCC) nonché delle “persone soccorse”, distinguendo gli assetti intervenuti (Guardia costiera, Marina militare, Frontex, navi delle Ong, mercantili, navi militari straniere, Guardia di finanza, operazioni europee ecc.). […]

Poi, dal 2019, quei dati sono stati accorpati per trimestri e trasformati (da notare il veleno) in “Prospetti dati statistici-Eventi riconducibili al fenomeno dell’immigrazione non regolare via mare verso le coste italiane”, con l’inedita indicazione di “persone intercettate nel corso di operazioni di polizia di sicurezza (Law Enforcement)”. La forma è sostanza: da quel momento, lungo la rotta del Mediterraneo centrale, la stragrande maggioranza degli eventi di ricerca e soccorso è stata classificata dalla Guardia costiera come “operazioni di polizia”. Un atteggiamento nuovo- lo ha sempre fatto Malta, attirandosi in passato le critiche degli italiani- che ha prodotto effetti sull’applicazione delle norme sul soccorso in mare e rafforzato il ruolo delle milizie libiche. L’ultimo dato risale al 2019 (perché nel 2020 la Guardia costiera non ha nemmeno pubblicato i report trimestrali, silenzio assoluto): 4.299 “persone intercettate nel corso di operazioni di polizia” contro 3.287 “persone soccorse”. Un tempo erano solo naufraghi alla deriva.

Al centro di questa “truffa delle etichette” ci sono naturalmente la Libia e le sue milizie. Nei primi sette mesi del 2021 queste ultime sono state in grado di intercettare e riportare forzatamente a Tripoli circa 16 mila persone che tentavano di fuggire dalla guerra, dalle violenze e dalle torture (erano 5.500 nello stesso periodo del 2020).

Come sia stato possibile il progressivo affermarsi dello strapotere dei “libici” lo ha spiegato in un’intervista di commiato l’ammiraglio Giovanni Pettorino, comandante generale della Guardia costiera fino all’estate 2021 (ha da poco terminato il mandato dopo tre anni e mezzo). Si può leggere sul “Notiziario della Guardia costiera” di luglio. A un certo punto l’intervistatore (Giampiero Cazzato) pone a Pettorino una domanda interessante: “Che cosa è cambiato nel lavoro della Guardia costiera con l’istituzione di un’area di responsabilità libica di Search and Rescue?”. Riccardo Gatti ce lo ha mostrato in questo libro che cosa è cambiato (siamo a cavallo tra il 2017 e il 2018): luci spente sui soccorsi, Ong tagliate fuori e criminalizzate per la loro attività di denuncia, fine del coordinamento dei soccorsi, milizie libiche aiutate, anche tramite velivoli Frontex, nell’andare a caccia per rispedire indietro le persone, la Guardia costiera italiana che muta atteggiamento, per non parlare di Malta. Chi non si fida di Gatti può leggere il recente rapporto Lethal Disregard dell’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni unite. 

L’ammiraglio ricostruisce però i fatti a modo suo: “Nel 2017, oltre all’invio del nostro ambasciatore in Libia, quel Paese aveva iniziato ad avere una Guardia costiera più sviluppata, tant’è che ha dichiarato la propria zona di responsabilità Sar. I libici, quando si verifica qualche emergenza in questa area, così come previsto dalla Convenzione di Amburgo, assumono il coordinamento delle operazioni. In presenza di un’assunzione di coordinamento da parte di uno Stato sovrano che siede all’Onu; che è riconosciuto dal nostro Paese; che ha recepito la Convenzione di Amburgo; che ha dichiarato la propria zona Sar; che ha una Guardia costiera che nel tempo ha soccorso diverse migliaia di persone, è evidente e naturale che le modalità di intervento della Guardia costiera italiana andassero ricalibrate”. La realtà è tutta un’altra cosa.  […]

Il passaggio successivo dell’intervista di Pettorino -che ha ricevuto a fine carriera la medaglia d’oro al merito della Croce rossa italiana per “il costante impegno nel dirigere le operazioni di soccorso in mare che hanno consentito di salvare migliaia di vite umane”- è ancora più importante: “Fino al 2017, quando ci chiamavano per un’emergenza in questa area, noi eravamo obbligati a rispondere alle richieste di soccorso, che ricadevano sotto la nostra responsabilità: normative alla mano, infatti, nei casi in cui lo Stato competente non assuma il coordinamento delle operazioni di soccorso, tali operazioni vengono coordinate dall’Autorità nazionale Sar che, per prima, ne ha avuto notizia ed è in grado di fornire la migliore assistenza possibile. Oggi, con il riconoscimento della area Sar libica, non è più così anche se è evidente che, tutte le volte che rileviamo difficoltà da parte dei Paesi che ci circondano, offriamo loro la massima disponibilità e collaborazione. Collaborazione che offriamo nel rispetto della Convenzione di Amburgo”.

È la “strategia”: poiché respingere direttamente le persone in Libia non si può fare -e l’Italia è già stata sanzionata nel febbraio 2012 dalla Corte europea dei diritti umani per i respingimenti commessi nella primavera 2009 (causa Hirsi Jamaa e altri c. Italia, Silvio Berlusconi presidente del Consiglio, Roberto Maroni al Viminale)- era necessario farlo fare ad altri. Cioè ai libici, assicurandogli l’occorrente e affiancandoli: un’area Sar, le navi, l’equipaggiamento, la formazione per condurre le motovedette, l’assistenza, i soldi, il sostegno aereo, i cantieri, la copertura. A beneficio di personaggi come Abd al Rahman al-Milad (al-Bija), già capo dell’unità regionale della “Guardia costiera” di Zawiya, “sistematicamente connessa a violenze nei confronti dei migranti e di altri trafficanti di esseri umani” (parole delle Nazioni unite del 2018). 

Le nostre forniture milionarie non derivano “solo” dal “Fondo Africa”, istituito con la legge di Stabilità 2017, o dal memorandum Italia-Libia del febbraio 2017 (Paolo Gentiloni presidente del Consiglio, Marco Minniti al Viminale), rinnovato nel febbraio 2020 senza alcuna modifica. Perché le vie per supportare i libici a terra e per mare, infatti, sono infinite. […]

In questo breve contributo voglio però concentrarmi su un altro specifico progetto legato al Fondo fiduciario per l’Africa (Eu Trust Fund, Eutf), istituito dalla Commissione europea a fine 2015 per “affrontare le cause profonde dell’instabilità, degli spostamenti forzati e della migrazione irregolare e per contribuire a una migliore gestione della migrazione”. Adottato nel luglio 2017, fa capo fin dall’inizio al ministero dell’Interno italiano, si intitola Support to integrated Border and Migration Management in Libya – First Phase ed è dotato di un budget di 46,3 milioni di euro.

La decisiva dichiarazione della “zona di responsabilità Sar” da parte dei libici, per citare Pettorino, è collegata a questo progetto, dalla durata iniziale di 84 mesi. Il 10 luglio 2017, infatti, il presidente dell’Autorità portuale e dei trasporti marittimi della Libia, Omar Al-Gawashi, aveva spedito una comunicazione al segretario generale dell’Organizzazione marittima internazionale (Imo), Kitack Lim, comunicando l’istituzione di un’area di responsabilità Sar e chiedendo “gentilmente” di inoltrare a tutti gli Stati membri la lettera timbrata e sottoscritta. In quella dichiarazione, però, l’area Sar indicata dalla Libia lasciava un pezzo di mare orfano tra le Sar libica, egiziana, maltese e greca. Una “fetta” esclusa da ogni area di ricerca e soccorso. Quell’errore avrebbe invalidato la procedura. A rilevarlo e a suggerirne la correzione è stata proprio la Guardia costiera italiana, che dal maggio 2017 coordinava -nella persona dell’allora ammiraglio ispettore Nicola Carlone, oggi promosso numero uno al posto di Pettorino- il Libyan Maritime Rescue Coordination Centre Project (Lmrcc), gestito dall’Italia e finanziato dalla Commissione europea (per 1,8 milioni di euro tramite il Fondo per la sicurezza interna). Lo scopo del progetto era quello di assistere le autorità libiche nella dichiarazione di una zona Sar “in accordo con il diritto internazionale” e di procurare attrezzature e formazione specializzata ai libici per la creazione e l’operatività di un autonomo Centro per la ricerca e il soccorso in mare. Con la finalità di “ridurre gli eventi Sar direttamente gestiti dai Paesi europei”. Torture, abusi e mancata protezione erano già dettagli trascurabili.

E così è andata. Grazie al Libyan Maritime Rescue Coordination Centre Project -e all’operato della “nostra” Guardia costiera- l’area Sar libica è stata dichiarata ufficialmente nel giugno 2018, contribuendo a definire quel “mare buio” che conosciamo oggi. Poiché le Ong mostravano (e continuano a mostrare) questo abisso di violenza, di mancato accesso alla protezione, da qui la necessità di rimuoverle, anche a costo di un incremento in termini relativi della mortalità lungo la rotta.

Dal progetto Support to integrated Border and Migration Management in Libya sono derivati anche rilevanti appalti per garantire forniture ai libici. Affidamenti in capo a imprese italiane. A fine dicembre 2018, per esempio, il ministero dell’Interno italiano ha indetto una gara d’appalto da oltre 9,3 milioni di euro per la fornitura di venti imbarcazioni (“battelli pneumatici di tipo oceanico”) destinate alla polizia libica. Le risorse derivavano proprio dal progetto descritto. In questo, come in tanti altri casi, la palla è in mano alla Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere, il braccio operativo del Viminale a questo proposito, un altro soggetto chiave nel solco della “strategia”. […]

Chi decide che cosa serve ai libici? Il ministero dell’Interno sostiene che tutto sia partito da una “nota” firmata il 24 dicembre 2018 dalle “competenti autorità libiche” (parole del Viminale), nella quale queste avrebbero esplicitato una “richiesta di assistenza tecnica” con tanto di “specifiche” per poter far fronte a “esigenze istituzionali legate al contrasto del fenomeno dell’immigrazione irregolare”. Quando come Altreconomia abbiamo chiesto copia della nota, ci è stato risposto picche. Motivo: “evitare un pregiudizio concreto alla tutela degli interessi pubblici” dello Stato e tutelare le “relazioni internazionali” con un “Paese strategico per l’Italia sotto il profilo della gestione dei flussi migratori e della sicurezza del Mediterraneo”. […]

Concludo con uno sviluppo recentissimo. Nella primavera 2020, in piena emergenza sanitaria, il comando generale della Guardia di finanza e il Dipartimento di pubblica sicurezza hanno sottoscritto una convenzione finalizzata alla “collaborazione […] per la realizzazione congiunta di talune attività”, legate proprio al progetto Eutf da 46,3 milioni di euro. La Gdf si è presa in carico la manutenzione per 24 mesi di alcune imbarcazioni della General Administration for Coastal Security (Gacs) libica nonché la “fornitura e consegna in loco alle autorità libiche di uno shelter officina”. Quali imbarcazioni? “Omissis”, ha indicato la Gdf nel trasmettere una copia della convenzione. Gli effetti si sono visti. Le procedure del Centro navale della Guardia di finanza da quel momento sono state frenetiche: tra fine 2020 e giugno 2021 si è sfiorata quota 10 milioni di euro. Motori, ricambi, eliche, “pitture”. Inclusa la manutenzione straordinaria di due motovedette nel febbraio 2021: i lavori di “somma urgenza” sono stati svolti in Sicilia in un “ricovero discreto” per “mezzi navali di grandi dimensioni” al fine di “nasconderli alla vista di persone estranee”, come si può leggere dall’atto autorizzativo del Centro navale.

La Direzione centrale del Viminale non si è fermata. A fine maggio 2021 ha messo a gara da ultimo l’”ammodernamento refitting” di un’imbarcazione da 28 metri, la P201, ceduta alla Gacs libica, e le “connesse forniture” per 1,1 milioni di euro. 

Dagli atti di quella procedura è emerso un passaggio chiave, e cioè che nel dicembre 2020 sarebbe stato confezionato un “Addendum” alla convenzione del progetto ministeriale Eutf in Libia. Il ministero si è rifiutato di trasmettere a chi scrive copia degli allegati a quell’integrazione: “L’atto richiesto -è la replica del 17 agosto 2021 all’istanza di accesso agli atti- non è ostensibile in ragione del concreto pregiudizio che dall’ostensione deriverebbe all’integrità dei rapporti internazionali del nostro Paese con Paesi terzi in tema di contrasto all’immigrazione illegale, alla lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata e al traffico di esseri umani”. Ecco perché era ed è importante togliere di mezzo le Ong e i loro occhi. 

Come dimostra questa breve carrellata di appalti, in ballo c’è una “strategia” feroce che non si può discutere, rivedere, cancellare. Riccardo dice: “Quando stai in mare, le cose si vedono molto più chiaramente”. Qui invece la trasparenza è in alto mare. E noi affondiamo nell’abisso.

“Conversazioni in alto mare” di Riccardo Gatti e Marco Aime (Elèuthera editrice, ottobre 2021). Qui i dettagli della presentazione al Salone del libro di Torino del 15 ottobre.

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